Per l’economia cinese, il nuovo anno è cominciato con notizie poco rassicuranti. La prima doccia fredda è arrivata ai primi di gennaio, con il dato relativo al PMI (Purchasing Managers Index) del settore manifatturiero: a dicembre, il grado di contrazione è stato maggiore del previsto, quotando 49,4 anziché 49,9. Per fortuna, il comparto dei servizi aveva confermato un buon andamento: 53,9 punti, dopo i 53,8 di novembre.
Le contromisure non si sono fatte attendere: la Banca del popolo cinese è intervenuta abbassando di un punto percentuale il coefficiente di riserva obbligatoria delle banche (RRR), portandolo al 19,5% per le grandi banche e al 16% per le piccole, liberando risorse liquide che potrebbero arrivare al controvalore di 194 miliardi di dollari. E’ stato ipotizzato che questa somma servirà soprattutto per far emergere le situazioni di finanziamento ancora poco trasparenti, quello delle aziende che ricorrono allo shadow banking e che sarebbero numerose anche fra quelle più vicine al sistema di governo locale.
Questa decisione di stimolo monetario ha destato a sua volta una certa preoccupazione, visto che il livello del credito totale interno della Cina è già arrivato al 252% del pil. In dollari, sono circa 34 mila miliardi, di cui l’84% a carico del settore privato. Nel 2008, alla vigilia della crisi, il rapporto era del 148%, oltre 100 punti più basso.
Se il pil nominale cinese è triplicato in dieci anni, il credito è aumentato molto più velocemente. E’ difficile comprendere, dal nostro punto di vista, il significato concreto di queste dinamiche, se non si considera che il tasso di risparmio lordo annuale della Cina si aggira attorno al 50%, mentre quello degli Usa gravita sul 18% e quello dell’Italia arriva a qualche decimale in più.
La Cina cinese, nei dieci anni che vanno dal 2008 al 2017 ha accumulato risparmi pari al 492% del pil, rispetto al 177% degli Usa ed al 184% dell’Italia. Un afflusso così considerevole di risparmio annuale pone problemi di gestione e di allocazione del credito che per noi sono difficili anche solo da immaginare.
A fare tornare i sudori freddi sono stati, lunedì scorso, i dati del commercio internazionale: nel mese di dicembre c’è stata una contrazione forte sia per l’export (-4,4% a/a) che per l’import (-7,6% a/a): l’economia globale sta rallentando; e la Cina, la fabbrica del mondo, cala velocemente di giri.
A fronte di queste nuove preoccupazioni, sono stati diffuse le prime anticipazioni circa le misure di stimolo fiscale: sgravi alle famiglie, legati ad una serie innumerevole di spese, dalla istruzione alla sanità, ed elevazione della soglia del reddito non tassabile, per un controvalore compreso tra i 170 ed i 200 miliardi di euro. Una cifra analoga dovrebbe essere destinata agli investimenti delle amministrazioni locali.
A questo punto, una crescita del pil al 6% per il 2019 non è affatto un obiettivo disprezzabile, visto che prende come base una economia che registra da anni incrementi continui dello stesso ordine di grandezza.
La Cina punta dunque a sostenere il mercato interno, ben consapevole che dalle esportazioni potrà aspettarsi sempre di meno. Su questo versante, c’è da fare un primo bilancio delle misure tariffarie adottate dalla Amministrazione Trump nei confronti delle merci cinesi: per ora sono state un buco nell’acqua.
La bilancia commerciale americana, sul cui riequilibrio il Presidente Donald Trump ha battuto e ribattuto con forza, va sempre peggio, soprattutto nei confronti della Cina. In generale, è tutto il quadro che non regge: nei primi dieci mesi del 2018, il deficit totale degli Usa per beni e servizi verso il resto del mondo è arrivato a 503 miliardi di dollari, con un peggioramento dell’11,4% (+51,3 mld) rispetto allo stesso periodo del 2017.
Le esportazioni sono cresciute del 7,7% e le importazioni dell’8.4%. Considerando le sole merci, il deficit americano è passato da 659 a 732 miliardi di dollari (+73 mld). Il saldo negativo nei confronti della Cina è passato da 309 a 344 miliardi (+35 mld), cifra pari al 47% del deficit totale, mentre quello verso l’Eurozona è aumentato da 105 a 124 miliardi (+19 mld). Il deficit è migliorato nei confronti di Giappone (da 58 a 56 mld) e Corea del Sud (da 19 a 15 mld), mentre è peggiorato verso Germania (da 52 a 56 mld), Messico (da 59 a 67 mld) e Canada (da 14 a 18 mld). Stazionario invece quello verso l’Italia (attorno a 25 mld).
I dati relativi al commercio tra Usa e Cina vanno letti con qualche dettaglio in più: considerando i primi dieci mesi dell’anno, le importazioni americane sono passate dai 413 miliardi del 2017 ai 447 miliardi di dollari del 2018 (+34 mld), mentre le esportazioni sono rimaste sostanzialmente stazionarie (passando da 104 a 103 mld). Questo aggregato temporale non dà conto dell’andamento assai più contrastante che si è verificato negli ultimi mesi del 2018, quelli su cui si sono cominciati a vedere gli effetti delle misure tariffarie imposte dagli Usa e delle conseguenti ritorsioni cinesi: a partire da luglio scorso, infatti, le importazioni cinesi di merci americane sono diminuite continuamente, scendendo abbondantemente a partire da settembre al di sotto dei 10 miliardi di dollari mensili, ribaltando la dinamica crescente che era stata registrata nei dodici mesi precedenti.
Sembra esserci stato un vistoso effetto boomerang a danno degli Usa: mentre i dazi imposti dai cinesi hanno avuto un effetto concreto di spiazzamento delle merci americane, le importazioni americane di merci cinesi hanno registrato un vigoroso incremento, passando dai 47 ai 52 miliardi di dollari mensili tra luglio ed ottobre scorsi. Due potrebbero essere state le cause di questo fenomeno: la anticipazione delle scorte, in vista della imposizione di ulteriori dazi, più volte minacciata nel caso di un esito negativo delle trattative in corso; la scarsa sostituibilità sul mercato americano e globale delle produzioni cinesi.
Di converso, e questo potrebbe apparire a prima vista paradossale, le merci americane sono assai più facilmente sostituibili sul mercato cinese, soprattutto se si pensa alle derrate agricole ed alimentari: il 60% della produzione americana di soia, ad esempio, era destinata al mercato cinese. In alternativa, le forniture da Argentina e Brasile rappresentano per la Cina un rimpiazzo immediatamente disponibile, comportando una conseguente triangolazione dei flussi verso l’Europa che infatti nel 2018 ha quasi triplicato l’import di questi semi dagli Usa.
Giappone, Cina e Germania sono creditori netti verso il resto del mondo, mentre gli Usa sono da tempo debitori netti. Il processo di riequilibrio commerciale e finanziario americano si presenta ancora lungo e complesso, anche perché le vecchie leve strategiche non sono più disponibili. Non è più ripetibile l’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio, che a partire dal 1973 rese molto meno convenienti le produzioni di Europa e Giappone, né il G7 è oggi uno strumento docile come nel lontano passato. L’idea di poter “comprare” la Russia e la Cina è fallita, così come ora è poco plausibile l’ipotesi di una loro implosione socio-politica per via delle tensioni interne.
Le tensioni all’interno dell’Unione europea, e soprattutto la politica di austerità fiscale decisa per ridurre gli squilibri interni, ne stanno mettendo a dura prova i processi di crescita e la tenuta complessiva del quadro istituzionale. E mentre sia gli Usa che la Cina nello scorso decennio hanno puntato sempre sulla crescita economica e sull’aumento delle occupazione, a Bruxelles hanno creduto nella deflazione salariale e nella competizione attraverso le esportazioni. La instabilità socio-politica che avrebbe dovuto far collassare gli antagonisti degli Usa, Russia e Cina, ha invece intaccato pesantemente l’Europa.
La non casuale instabilità provocata nel nord Africa e nel vicino Oriente, con le conseguenti crisi migratorie, ha messo una pietra tombale sulla prospettiva dell’Unione Euro-Mediterranea, avviata nell’estate del 2008, appena un paio di mesi prima della crisi di Lehman Brothers. Poteva essere un’area di prosperità e di pace.
Mentre l’Europa a trazione franco-tedesca ha saputo solo dilaniarsi, Usa e Cina perseguono con ogni mezzo strategie di crescita interna e di potenza. Il riequilibrio commerciale americano si presenta come una marcia ancora molto lunga e complessa, che si appaia a quella di proiezione della Cina all’estero. Le strutture di mercato si dimostrano ancora una volta assai meno prevedibili e controllabili rispetto a quelle presidiate dalla politica: il disavanzo commerciale americano continua a lievitare, e questa è già una pessima notizia. Da un confronto più duro, se ne uscirà con molte ossa rotte.
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