di Michele Giorgio – il Manifesto
Chi se ne va dalla Siria, come gli Stati Uniti, e chi torna, come l’Italia. Il governo Conte è pronto a riattivare le attività dell’ambasciata italiana a Damasco.
Lo scrivono da alcuni giorni i media arabi, spiegando che l’Italia ha
già avviato i lavori di ristrutturazione all’interno della sede della
missione in Siria chiusa dal 2012. Da Roma di ufficiale trapela
poco ma indiscrezioni diffuse da fonti anonime della Farnesina
sussurrano che tra una decina di giorni o poco più un incaricato
d’affari sarà nella capitale siriana per riaprire l’ambasciata. D’altronde
la scorsa settimana era stato lo stesso ministro degli esteri Enzo
Moavero Milanesi a dare peso alle notizie di fonte araba. «Stiamo
lavorando per valutare se e in che tempi sia necessario riaprire
l’ambasciata in Siria», aveva detto aggiungendo che «è molto importante
che la situazione in Siria vada verso prospettive più normali. Non c’è
stata un’accelerazione in questo senso».
Il nostro ministero degli esteri ribadisce che i rapporti con la Siria restano «congelati».
Ma è fin troppo chiaro che la vittoria militare e politica del
presidente siriano Bashar Assad – simboleggiata anche dalla recente
ripresa delle relazioni diplomatiche di Damasco con i “nemici” Bahrain
ed Emirati – ha convinto la Farnesina a muoversi per tempo ed a
riallacciare i rapporti con la Siria. Che poi non sono mai stati
interrotti del tutto visto che i servizi segreti italiani contatti con
l’intelligence siriana, nella lotta all’Isis e ad al Qaeda, hanno
continuato ad averli. È perciò finita l’era della linea di
Giulio Terzi, il peggior ministro degli esteri dell’Italia repubblicana.
Terzi abbracciò la causa “ribelle”, ossia dei jihadisti e qaedisti
finanziati dalle monarchie sunnite del Golfo e appoggiati da Londra,
Washington e Parigi e fece dell’Italia una delle avanguardie della
campagna volta a rovesciare Assad e a riposizionare la Siria nello
scacchiere strategico mediorientale allontanandola dall’Iran.
In realtà il riavvicinamento a Damasco non è frutto solo delle decisioni del governo in carica.
L’anno scorso a febbraio, quindi con Gentiloni presidente del
consiglio, avvenne la visita “segreta” a Roma del capo dei servizi
segreti siriani Ali Mamlouk. Il tempo ora stringe e l’Italia, senza
rompere ufficialmente con la linea dell’Ue di scontro con Damasco, sa
che Stati Uniti, Francia e Gb non potranno paralizzare ancora a
lungo la ricostruzione della Siria e intende arrivare in tempo utile al
tavolo della spartizione degli appalti miliardi.
Non si tratta di una
scelta frutto di fini valutazioni strategiche e di elaborate analisi sul
ruolo dell’Italia in Medio oriente. Cose che i membri del governo
gialloverde non sono in grado di fare. Più semplicemente le
imprese italiane scalpitano davanti ad un affare da 300-400 miliardi di
dollari, secondo alcune stime, e non intendono farselo scappare.
Roma perlatro, almeno in teoria, può contare sull’appoggio di Mosca,
alleata di Damasco, con cui ha buoni rapporti rispetto ad altri paesi
dell’Unione. L’ambasciata italiana a Damasco perciò avrà il compito
principale di favorire gli appetiti dei colossi dell’imprenditoria
italiana pronti a “ricostruire” la Siria.
In attesa di ulteriori conferme delle mosse italiane, chi non seguirà le orme di Roma sono il Qatar e l’Arabia Saudita,
paesi che hanno sostenuto e finanziato rispettivamente il movimento dei
Fratelli musulmani siriani e varie organizzazioni salafite jihadiste
nel tentativo, fallito, di far crollare Bashar Assad e frantumare la
Siria. Ieri il ministro degli esteri qatariota, Mohammed bin Abdulrahman
al Thani, ha detto che a differenza di altri paesi del Golfo, il Qatar
non riaprirà la propria ambasciata a Damasco e si opporrà al ritorno
della Siria nella Lega araba. L’Arabia Saudita da parte sua ha smentito
la notizia secondo la quale sarebbe pronta a riallacciare relazioni
diplomatiche con Damasco.
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