In una intervista al quotidiano britannico Sunday Times, l’uscente
capo dell’esercito israeliano Gadi Eisenkot ha ammesso per la prima
volta che Israele ha fornito armi leggere per motivi di “autodifesa” ai
gruppi “ribelli” siriani sulle Alture del Golan durante i sette anni di guerra civile siriana. Una
dichiarazione importante in quanto finora Tel Aviv ha sempre sostenuto di aver fornito soltanto “aiuti umanitari” ai gruppi di opposizione
(per lo più islamisti, quando non proprio jihadisti), negando, o
rifiutando di commentare, le notizie relative ad eventuali invii di
armi.
Notizie, queste ultime, che in verità circolavano da anni: se Damasco
le utilizzava per screditare l’opposizione “a soldo dei sionisti”,
alcuni gruppi di opposizione le avevano diffuse sperando di poter
incassare un maggiore sostegno dagli israeliani nella lotta contro il
presidente siriano Bashar al-Asad. Ora però queste indiscrezioni sono
confermate perché arrivano direttamente da un importante esponente
d’Israele: lo stato ebraico non è mai stato “neutrale” sulla guerra civile siriana come ha più volte sostenuto il premier Netanyahu.
A differenza di quanto hanno sostenuto per anni anche molti attivisti e
commentatori pro-rivoluzione, anche quando questa era già stata
evidentemente tradita dai gruppi islamisti e jihadisti, lo stato
ebraico è stato parte in causa del conflitto siriano e ha sin
dall’inizio spinto per la caduta di al-Asad nel tentativo di assestare
un duro colpo al “nemico” sciita Iran.
Della cooperazione tra Tel Aviv e i “ribelli” si è parlato più volte nel corso di questi anni:
dagli “aiuti umanitari” offerti sul territorio israeliano alle
“opposizioni” siriane che generarono proteste, anche violente, dei drusi
nel nord dello stato ebraico (in un caso almeno fu assaltata anche
una autombulanza che trasportava un combattente islamista), alle
dichiarazioni di vicinanza espresse a più riprese da alcuni esponenti
dell’opposizione “moderata” (un loro rappresentante incontrò anche pezzi
importanti del mondo politico israeliano in un suo tour in Israele), ai
ripetuti raid anti-Iran e anti-Hezbollah compiuti in Siria. In
realtà anche lo stesso esercito israeliano aveva rivelato che, a partire
dal 2016, stava lavorando all’“Operazione buon vicino”: una
operazione definita umanitaria perché nata per impedire che migliaia di
siriani lungo il confine potessero essere vittime della fame e per
fornire cure sanitarie a coloro che non ne potevano disporre a causa
della violenza della guerra siriana. Il programma si è poi concluso
questa estate quando i soldati di al-Asad hanno ripreso il controllo
dell’area frontaliera.
Ora però arrivano le parole di Eisenkot che di fatto confermano
quanto già si sapeva, ma che molti fingevano di non vedere o non
comprendere. A settembre uno studio del prestigioso Foreign
Policy ha affermato che Tel Aviv ha fornito segretamente armi e
finanziato almeno a 12 gruppi ribelli siriani nel tentativo di impedire
che le forze pro-iraniane e quelle jihadiste potessero collocarsi lungo
il suo confine settentrionale. Israele, secondo il rapporto,
pagava un salario mensile ai combattenti pari circa a 75 dollari e aveva
fornito loro armi e altri materiali (il governo Netanyahu non ha mai
commentato la notizia). Il sostegno diretto alle formazioni della
variegata opposizione siriana sarebbe incominciato nel 2013 nell’area di
Quneitra e Daraa (sud della Siria) ed è finito questa estate con
l’avanzata delle truppe di al-Asad nelle aree meridionali dello stato
arabo.
L’articolo sosteneva che le armi inviate ai “ribelli” comprendevano
fucili d’assalto, mitragliatrici, mortai e veicoli. Nel 2013 l’esercito
siriano denunciò di aver confiscato ai ribelli armi di fabbricazione
israeliana. Ma molti archiviarono ben presto queste dichiarazioni
ritenendole figlie di becera propaganda del regime per screditare
l’opposizione su cui si gettava l’infamante etichetta di
“collaborazionista con i sionisti”. Foreign Policy e soprattutto ora
Eisenkot, invece, confermano quanto quelle parole fossero veritiere.
Aiuti però, ha precisato la rivista statunitense, che furono poca cosa
se paragonati ai finanziamenti e al sostegno ricevuti da quei gruppi da
altri paesi (Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Usa).
Secondo il Times of Israel, le rivelazioni di Eisenkot vanno
però inquadrate in una più ampia strategia messa a punto dall’esercito
che consiste nell’essere più aperti sulle sue attività in Siria.
Nelle sue ultime uscite da capo militare, Eisenkot ha in effetti
ammesso le centinaia di bombardamenti compiuti dall’aviazione israeliana
(in alcune interviste ha parlato di 200 raid, in altre 400). Tel Aviv, a
suo dire, avrebbe sganciato nel solo 2018 2.000 bombe su target
iraniani. Al Sunday Times l’uscente capo militare è stato sincero:
“Abbiamo compiuto migliaia di attacchi senza assumerci la responsabilità
e senza prenderci alcun merito”. La linea della trasparenza sulla Siria
sembra essere stata sposata recentemente anche dal premier Netanyahu:
domenica il primo ministro ha infatti ammesso che i jet israeliani
avevano bombardato due giorni prima depositi di armi all’aeroporto di
Damasco.
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