Annunciando di aver scoperto tutti i tunnel sotterranei scavati dal partito sciita libanese Hezbollah, Israele ha posto ieri fine all’operazione “Scudo Settentrionale”.
L’operazione, iniziata lo scorso 4 dicembre, aveva come obiettivo
dichiarato quello di distruggere la rete di tunnel che violano, secondo
Tel Aviv e Onu, il cessate il fuoco del 2006. L’annuncio di “Scudo
Settentrionale” aveva generato in molti commentatori preoccupazioni che
il “Partito di Dio” avrebbe potuto rispondere dando così inizio ad un
nuovo conflitto tra le due parti. Del resto lo scorso anno il
segretario di Hezbollah, Hasan Nasrallah, era stato chiaro: un futuro
conflitto con Israele avverrà dentro il suo territorio e “nessun posto
sfuggirà agli stivali e a i missili dei combattenti della resistenza”.
Ciononostante, eccetto qualche piccola scaramuccia, il confine è
rimasto tranquillo anche grazie all’operato dell’Unifil, la forza
internazionale che controlla il rispetto della risoluzione 1701 che ha
posto fine alla guerra del 2006 tra Israele ed Hezbollah.
L’annuncio di ieri è giunto per bocca del colonnello israeliano Jonathan Conricus:
“Abbiamo trovato un altro tunnel di Hezbollah [il sesto, ndr] che [dal
Libano] arriva in Israele. Secondo la nostra intelligence e le nostre
valutazioni, non ce ne sono più”. L’esercito ha fatto poi sapere che
l’ultimo tunnel scoperto – anche questo, come i precedenti, non ancora
operativo – partiva dal villaggio libanese di Ramyeh, a 800 metri dal
territorio israeliano. Conricus ha però chiarito che i suoi uomini
stanno ancora monitorando eventuali “strutture” scavate dai combattenti
sciiti in territorio libanese. Ha poi ribadito che Tel Aviv ritiene il governo di Beirut responsabile per “ogni atto di violenza e violazione della 1701”.
In visita al confine con il Libano si è recato ieri anche il
premier Benjamin Netanyahu che, in piena campagna elettorale, ha
definito un “successo” l’operazione Scudo Settentrionale. “Una
minaccia grave è stata qui evitata – ha poi aggiunto – Il piano
operativo di Hezbollah era quello di usare questi tunnel per infiltrare
in Galilea tanti combattenti, tra i 1.000-2.000 terroristi, per prendere
possesso delle nostre comunità. Noi l’abbiamo impedito e continueremo a
farlo”.
Nessun commento è giunto da Hezbollah che, da quando è iniziata
l’operazione israeliana, ha scelto di mantenere un profilo basso. Molto
probabilmente questo atteggiamento prudente deriva dal fatto che il
“Partito di Dio” è molto interessato in questa fase a non aumentare
l’escalation con gli israeliani perché il suo vero obiettivo è al
momento la formazione del prossimo governo libanese (a 7 mesi dalle
elezioni le forze politiche locali non hanno ancora trovato un accordo).
Silenzio è giunto ieri anche dalle autorità libanesi
che, sin da quando hanno avuto inizio le attività israeliane al confine,
hanno avuto un atteggiamento collaborativo e improntato alla calma,
sebbene non abbiano mancato di criticare Israele per la violazione della
risoluzione 1701.
Ma la parola calma è termine sconosciuto nel triangolo
Libano, Israele e Siria. Ieri, infatti, Netanyahu ha confermato che i
jet israeliani hanno effettuato venerdì un raid aereo in Siria.
“Trentasei ore fa – ha affermato il primo ministro durante il consiglio
dei ministri settimanale – la nostra aviazione ha colpito depositi
iraniani di armi”.
Un riconoscimento rarissimo quello fatto ieri da Tel Aviv. Eppure si stimano in centinaia i raid compiuti in questi anni in Siria da Israele in chiave anti-Iran ed Hezbollah.
Attacchi confermati di recente anche dal capo dell’esercito israeliano
Gadi Eisenkot che in più circostanze ha spiegato come l’esercito prenda
di mira le armi contrabbandate dall’Iran al Libano che transitano per la
Siria.
Il riconoscimento dei bombardamenti di Netanyahu è
probabilmente connesso anche alla campagna elettorale in corso in
Israele (elezioni il prossimo 9 aprile). Il premier – che
rischia un'incriminazione per corruzione, ma che ciononostante domina
nei sondaggi – vuole accreditarsi sempre più come leader forte del
Paese e scalzare le critiche che gli sono mosse contro da
alleati o ex partner di governo per una sua (presunta) “debolezza” nei
confronti dei “nemici” dello stato ebraico. Non solo gli
iraniani in Siria, ma anche Hamas nella Striscia di Gaza e i
manifestanti delle “Marce del ritorno” del venerdì. Non sono infatti
sazi alcuni esponenti politici israeliani dell’uccisione al confine di
oltre 220 palestinesi dal 30 marzo scorso. A loro giudizio, la risposta è
“debole” e non ha creato un deterrente contro il lancio di missili e
degli aquiloni incendiari diretti verso il sud d’Israele.
Eppure nel piccolo lembo di terra palestinese assediato da Tel Aviv
da oltre 11 anni non c’è pausa alla mattanza di civili. L’ultima
vittima, Abdel Rahouf Salhah (14 anni), era stata raggiunta da una
pallottola alla testa sparata dall’esercito israeliano venerdì durante
le proteste al confine. Dopo due giorni di agonia è spirato ieri. Simile
sorte era capitata all’attivista Amal al-Taramsi uccisa venerdì dai
soldati israeliani mentre partecipava, come Abdel, alla “marcia del
ritorno”.
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