La vicenda dell’azienda farmaceutica Irbm che, secondo quanto riportato da Il Fatto, ha ottenuto più di 50 milioni di fondi destinati alla ricerca pubblica senza bando mette in luce un aspetto cruciale dei rapporti tra politica e scienza. La vicenda è stata, infatti, portata alla luce dall’unico rappresentate dei ricercatori, Vito Mocella che ha condotto una battaglia solitaria e meritoria, nel CdA del CNR: vediamo dunque com’è scelta la “testa” del più grande ente di ricerca del Paese. La maggiore critica che è stata fatta nel passato alla ricerca e agli scienziati che la dirigono è di essere autoreferenziali, di agire in conflitto d’interessi, e per questo di non essere utili al paese e alla sua economia. Secondo una visione un po’ caricaturale ma molto in voga, l’accademia genera naturalmente comportamenti “baronali” e per evitare questa situazione la legge ha previsto che il consiglio di amministrazione del CNR sia composto da cinque membri nominati dal ministro della ricerca di cui tre, tra cui il presidente, scelti direttamente dal ministro e due tra quelli indicati dalla Conferenza Stato-Regioni, dalla CRUI, dalla Confindustria, dall’Unioncamere e dai ricercatori del CNR. Il CdA è dunque nominato dal governo e gli scienziati dell’ente non hanno avuto voce in capitolo fino al 2015 dopo che i ricercatori hanno condotto una battaglia interna fino a decidere il boicottaggio dell’operato dell’Agenzia di Valutazione che su indicazione del ministero avrebbe dovuto valutare la ricerca del CNR. Solo in seguito a questa protesta si è data la possibilità al personale dell’ente di eleggere un proprio rappresentate nel CdA e di assumere quindi dirette responsabilità di gestione. Grazie a questo cambiamento nella struttura del CdA è stato dunque eletto Vito Mocella, un ricercatore dell’istituto di microelettronica e microsistemi di Napoli. Secondo Mocella prima della sua elezione “Non c’era l’abitudine a discutere le scelte che arrivavano dai soggetti politici e dai vertici del Cnr”.
Mentre non è per nulla chiaro quali miglioramenti alla missione del CNR, cioè fare ricerca, hanno portato i membri del CdA nominati dalla politica (nessuno è interessato alla valutazione dell’operato di questi membri e del loro apporto alla mission dell’ente) essi hanno sicuramente dato un contributo alla gestione del miliardo di euro all’anno che passa per il CNR e per i suoi 8200 dipendenti. Dunque, oltre il danno di avere un CdA in cui la rappresentanza di chi fa ricerca nell’ente era prima assente ed ora sottorappresentata, vi è la beffa di un CdA di nomina politica che, come dice Mocella, non è abituato a discutere le scelte che arrivano dai soggetti politici: un bel capolavoro di conflitti di interesse! Si poteva far di meglio: ad esempio si sarebbe potuto adottare il modello di governance del prestigioso Istituto Nazionale di Fisica Nucleare dove è la comunità scientifica interna che esprime i vertici dell’ente e dove, come si vede dai risultati, c’è una grande attenzione alle qualità della ricerca e alle istanze dei ricercatori. Non era questo, evidentemente, lo scopo di chi ha ideato la riforma dell’ente che invece mirava, anche in questo bistrattato settore, all’occupazione delle istituzioni pubbliche, a partire dai loro vertici, da parte dei partiti.
Questa deriva nei rapporti tra politica e accademia ha avuto un’accelerazione con la riforma Gelmini e non riguarda solo il CNR ma tutta la “testa” della ricerca e dell’università. Ad esempio, l’agenzia nazionale di valutazione, che sovraintende le carriere dei docenti e la distribuzione dei fondi delle università, ha un consiglio direttivo di completa nomina politica che a sua volta decide non solo gli indirizzi della valutazione ma nomina anche tutta la struttura preposta a perseguire tali obiettivi. In questo modo la rappresentanza dei docenti è stata azzerata a favore di un’élite di nominati che risponde solo alla politica. Si è così formata un’oligarchia, questa sì autoreferenziale e piena di conflitti d’interesse, che ha ingabbiato la ricerca e l’università togliendole non solo risorse ma, cosa ben più grave, limitandone significativamente la libertà di ricerca. L’indipendenza della cultura e della scienza che dovrebbe essere garantita dall’articolo 33 della Costituzione, viene nei fatti progressivamente negata aumentando il controllo politico e riducendo le risorse finanziarie.
Nel contratto di governo dell’attuale maggioranza è prevista la creazione di un’agenzia per la ricerca che debba sovraintendere a tutta la gestione dei fondi del settore: niente di più probabile che sia creato un altro “mostro” di management centralizzato legato alla politica (si potrebbe dire di stampo sovietico). Bisogna fare altro: da una parte è necessario garantire, alle istituzioni che ricevono fondi pubblici, la completa indipendenza e libertà per lo scopo e la metodologia di ricerca svolta, e la propria discrezionalità nella ripartizione dei fondi. D’altra parte queste istituzioni devono essere responsabili verso il parlamento (e non il governo): infatti, solo attraverso tale responsabilità è possibile mantenere il giusto rapporto tra scienza e le altre funzioni di un sistema democratico. Ciò significa che la politica deve stare il più lontano possibile dalle nomine della dirigenza poiché, come scriveva il famoso matematico De Finetti, «soltanto la libertà congiunta alla responsabilità crea rapporto tra esseri umani incoraggiati a sentirsi tali e a fare del proprio meglio».
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