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16/06/2019

Avere vent’anni: GODFLESH – Us and Them


I Godflesh erano un ponte tra il metal e il resto della musica pesante che valesse la pena ascoltare, ne abbracciavano una parte importante.

Lungo tutti gli anni ’90 chi non ne voleva un cazzo di vecchie glorie in crisi di identità, taglialegna in libera uscita, favolette Disney con eunuchi alla voce o quale che fosse il farsesco trend del momento, da qui doveva passare per sentire come suonano veramente alienazione, escapismo, industrializzazione, sopraffazione. Era questo il suono della realtà che ci circondava – è ancora così, la differenza è che la realtà di oggi non ha prodotto musica, solo suoni sgradevoli; tocca sucarcela così com’è –.

Fin dal primo, i dischi dei Godflesh sono stati il biglietto d'ingresso verso altre forme di aggressione sonora, molto più e molto meglio di quasi tutti gli altri: industrial, dub, techno, illbient, trip-hop, drum’n’bass, oltre alla grande passione (mai ricambiata) per Leonard Cohen.

Parti di un totale catturato miracolosamente nel momento stesso in cui si manifesta, a volte lasciato solamente intuire (su quelle intuizioni in troppi hanno mangiato per decenni), loro la principale emanazione in un cantiere aperto, stesse teste nomi diversi, rimescolare le carte in molteplici incastri dove convergevano anche i soliti sospetti – Techno Animal, Fall of Because, God, Ice, Curse of the Golden Vampire, The Bug, ditene una – tutti uniti e motivati dallo stesso destino: cercare luce nella sporcizia, salvezza nel fango.

Us and Them è l’ultimo disco dei Godflesh, il più inderogabile. Musicalmente lo spettro di influenze, spunti e suggestioni ha raggiunto il suo apice; lo stesso si può dire del corrispettivo lirico. Già nel precedente Songs of Love and Hate, Justin Broadrick aveva scelto di includere i testi nel libretto “per far capire all’ascoltatore quello che dico”; qui la questione diventa cruciale, le parole acquistano un peso specifico di svariate misure superiore al piombo. Niente scherzi: se l’ermetismo esistesse ancora, Broadrick sarebbe il solo degno di sedere alla destra di Giuseppe Ungaretti.

È tutto qui
Solo noi e loro
Non c’è altro modo
Noi, o loro

Rinuncia, o sdraialo
Lascia perdere, o prendilo quando è a terra
Rinuncia, siamo noi e loro
Arrenditi, è noi o loro

Più che una chiamata alle armi, lo spartiacque per capire chi sta dalla stessa parte della barricata; dunque contiamoci e restiamo uniti, che è una brutta lotta dover vivere in questo mondo. E così tutti gli altri pezzi: poche parole, il meno possibile, frasi calibrate fino a diventare sentenze incontestabili, per vedere il mondo come funziona alla base, per restare fuori dal gorgo, per non abbassare la guardia. Una questione draconiana.

Inattuale e radicato nel proprio tempo e fuori da ogni tempo, tutto in una volta, tutto insieme: è il disco da lanciare nell’iperspazio per tramandare a forme di vita aliene com’era la musica nell’ultimo decennio del ventesimo secolo. La storia l’hanno scritta con Streetcleaner e Pure, ma è questo il tassello più importante, il livello successivo oltre il quale diventa impossibile spingersi, il punto zero; Us and Them il loro Somewhere In Time, il loro In Utero.

C’è anche un tentativo di rap in Defiled, ecco lo scenario:

Verrò contaminato, nel tuo mondo sono ingenuo come un bambino smarrito. Ora non sembro più così forte. Le mie allucinazioni sono reali? Non sono nel giusto, non sono nel torto. Riesco a sentire solo la stessa vecchia merda. Ricostruiscimi, distruggimi e finiamola. Lo vedi bene che sto ancora qui, la sola cosa vera che mi hai insegnato è stata avere paura. Ho paura.

Nemmeno negli ultimi strascichi di rave clandestini che accompagnano la fine del millennio si è sentito un assalto psichico delle stesse proporzioni. È il grido di un’era che si sta accartocciando prima di collassare, il futuro non un’alba di possibilità, il suo esatto contrario: la barriera del 2000 sta per essere infranta e tutta la letteratura di fantascienza prodotta fino a qui crolla come un castello di carte di fronte alla minaccia incombente del millennium bug che il 31 dicembre 1999 forse manderà in tilt tutti i computer del mondo dopo le 23:59. La migliore ipotesi è che il primo gennaio tutto rimanga come era prima.

Anche se l’album si chiude con Live to Lose (pezzo scritto e inciso nel 1995 e mai pubblicato fino ad allora), il vero congedo è la precedente The Internal, glaciale presa di coscienza finale, definitiva, saldare i conti alla fine dei giochi; musicalmente una sinistra premonizione del recupero shoegaze coatto nei pessimi Jesu di là da venire, Broadrick a salmodiare come un Lindo Ferretti in acido. Il punto d’arrivo di un modo di confrontarsi con la musica e con la vita che poi non ritroveremo più, se non in versione annacquata, depotenziata, e solo quando Broadrick è particolarmente ispirato (gli episodi si possono contare su una mano e avanza pure qualche dito).

La nostra pace ora è in pezzi
Che altro ti aspettavi?

Siamo niente
Niente in verità

Ecco che arriva

L’inverno interiore
Dove l’innocenza dimentica.

Quel che uscirà poi a nome Godflesh è del tutto irrilevante. Us and Them, per usare le parole di chi ha saputo dirlo meglio di chiunque altro, il segno di una resa invincibile. (Matteo Cortesi)

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