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18/06/2019

La scialuppa tra le corazzate Usa-Ue-Cina

Il primo comandamento, se si vuol capire qualcosa di quel che accade nella “politica” – e soprattutto nella geopolitica internazionale – è lasciar perdere le dichiarazioni dei politici. Non perché siano completamente insignificanti, ma perchè in genere mescolano menzogna e propaganda. Dicono molto della disinvoltura e sfrontatezza dei singoli, quasi nulla su quel che bolle in pentola.

Figuriamoci poi quando bisogna occuparsi di “leader” che vanno negli States e non trovano di meglio che farsi un selfie da Washington, strepitando di essere sulla “scalinata di Rocky” (un film, mica una battaglia storica), che tutti sanno trovarsi a... Philadelphia.

Sia chiaro: se Salvini è andato negli Usa ci sono ragioni importanti, ma non sono quelle che dice perché i giornalari ci sguazzino come girini nella pozzanghera.

Meglio dunque guardare chi l’ha ricevuto: Mike Pompeo, segretario di Stato, ossia il ministro degli esteri. E c’è in effetti una logica evidente nel fatto che il ministro degli esteri della superpotenza fin qui dominante riceva un vice-presidente del consiglio e ministro di polizia di un paese facente parte da oltre 70 anni dell’inner circle degli alleati più servili. Un esponente del comando imperiale che istruisce un aspirante vicerè locale, volenteroso ma pasticcione (pensate che diceva di “di sentirsi a casa sua”... a Mosca!).

I punti su cui Pompeo avrebbe preteso l’assenso assoluto, ovviamente ottenendolo, sono tutti dossier di politica internazionale che, istituzionalmente, non sarebbero nella disponibilità di Salvini: rapporti con la Cina, l’Iran, la Corea del Nord, il riconoscimento del fantoccio Juan Guaidò (a proposito: che fine ha fatto?) come presidente del Venezuela, la Russia di Putin (con annesso problema ucraino). Problemi grossi, mica barconi da affondare o navi umanitarie da cacciare...

Sul “prendere” gli yankee sono maestri, nel dare molto meno. Le assicurazioni che il leghista è andato a cercare a Washington riguardano soprattutto la possibilità che gli Usa tornino ad essere una “spalla” cui appoggiarsi se – come sembra inevitabile – le trattative con l’Unione Europea su manovra, patto di stabilità e procedura d'infrazione dovessero prendere una piega negativa. Senza un appoggio statunitense, hanno pensato i Soloni della Lega, “i mercati” difficilmente sarebbero clementi con l’Italia.

Una classica illusione da parvenu, che pensano che la Casa Bianca sia in grado di dominare “i mercati” proprio come hanno dominato, fino a qualche anno fa, il mondo tornato unipolare. Lo spiega benissimo IlSole24Ore, organo di Confindustria: “i grandi fondi [di investimento, ndr] si muovono secondo logiche di convenienza, e se il rischio Italia diventa troppo alto non c’è politica che tenga”.

Nelle stesse ore, il presidente del consiglio Giuseppe Conte e alcuni esponenti grillini presenziavano a Milano alla serata di gala organizzata dalla Fondazione Italia-Cina, che metteva sul tavolo il rapporto «Cina 2019. Scenari e prospettive per le imprese».

Un evento fortemente sponsorizzato anche da Confindustria, o perlomeno da una parte importante delle aziende associate (Bombassei, il patron della Brembo), che sentono la musica dei profitti più o meno facili che potrebbero fare se andrà in porto – è proprio il caso di dirlo – il progetto di fare del “tridente” Trieste-Venezia-Genova il terminale italiano della Via della Seta.

Se ne parla poco, ma pochi mesi fa l’Italia ha firmato – con il presidente Xi Jinping in visita ufficiale – un Memorandum of Understanding per la collaborazione nel quadro della Belt and Road Initiative (BRI), comunemente detta Nuova Via della Seta.

La quale offre diverse opportunità: crescita delle infrastrutture portuali italiane (con l’indispensabile indotto fatto di aree di stoccaggio, tangenziali, nuove connessioni autostradali, ecc.), via preferenziale per le imprese italiane in grado di collaborare ai “grandi progetti di connettività” (con Huawei e simili), una presenza rafforzata per le imprese italiane sul mercato cinese e nei Paesi aderenti alla BRI.

Visto lo storico “coraggio” delle imprese nostrane, non dubitiamo che stiano guardando con autentica frenesia soprattutto la prima opportunità (infrastrutture, pagate dallo Stato e dai cinesi, ma realizzate da loro a prezzi gonfiati nel tempo), e molto meno alle altre due.

Ma c’è un terzo evento rilevantissimo, in questi giorni, di cui i grandi media non si sono occupati affatto. Forse per paura.

Ieri a Londra, dopo 4 anni di preparazione, è stato aperto il programma Shanghai-London Stock Connect. Cosa implica? E’ “un’importante manovra del mercato dei capitali cinese nella realizzazione dell’apertura bidirezionale. Il programma favorirà lo sviluppo del mercato di capitali sino-britannici. L’innovativa elaborazione del sistema ha dimostrato a tutto il mondo la determinazione e l’azione cinesi nell’espansione dell’apertura del proprio mercato dei capitali”.

In pratica una ciclopica mazzata in faccia all’Unione Europea che meditava – forzando la “non trattativa” sulla Brexit – di guadagnare lo spostamento delle attività della City di Londra verso le borse di Parigi e Francoforte.

Ma, nello stesso tempo, una mazzata sui calli di Donald Trump che, aprendo la guerra dei dazi con Pechino (e con la Ue, e persino con l’India), sognava di risollevare la produzione manifatturiera made in Usa senza perdere nulla in termini di dominanza sulle piazze finanziarie.

Una volta messo a punto, il programma Shanghai-London Stock Connect permetterà l’afflusso di capitali finanziari cinesi verso la Gran Bretagna e viceversa, smentendo così molte previsioni catastrofiche per la “perfida Albione” successive alla Brexit.

Dettaglio non secondario, per capirne alcune delle implicazioni: il London Stock Exchange, ovvero la borsa britannica, è una società privata che controlla anche la Borsa di Milano. Si viene così a realizzare – potenzialmente – una gigantesca triangolazione Londra-Milano-Shangai che, sul piano finanziario, per dimensione dei capitali circolanti, non avrebbe molto da invidiare a Wall Street. Parigi e Francoforte, a quel punto, sarebbero a forte rischio di Opa (offerta pubblica di acquisto, ossia incorporazione).

Partite complesse, di portata colossale, che vedono i nostri “politici” come nanerottoli in mezzo a giganti molto ben armati. E viene in mente l’emergente Italia della prima metà del ‘900, sempre alla ricerca di alleanze forti, sempre pronta a salire sul carro del vincitore. O di quello che sembrava tale (do you remember la Germania di Hitler?).

Qui vengono messi in evidenza solo alcuni dei principali assi di uno scenario globale in fortissimo movimento. Un qualsiasi movimento politico che voglia davvero cambiare il modello sociale e di vita, non può fare a meno di capire in che “nuovo mondo” stia faticosamente camminando.

Non per “schierarsi” con un padrone o l’altro (questo lo fanno già benissimo le forze politiche presenti in Parlamento e le imprese italiane), ma per poter decidere – con la nostra gente – “che fare”...

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