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29/06/2019

Luglio 1960


La necessità di rinnovare con costanza la memoria storica del nostra Paese si colloca ben oltre alla discussione sul neofascismo rampante nella difficile situazione dell’Italia di oggi.

Per questo motivo è più che mai valida la ricostruzione storica (pur eseguita in maniera assolutamente sommaria) di ciò che accadde tra la fine di giugno e il luglio del 1960: cinquantanove anni fa.

Era l’Italia del 1960. Ci si trovava in pieno miracolo economico, ma il benessere nascondeva profonde lacerazioni politiche e sociali.

Si stava provando, con fatica, a uscire dagli anni’50 e a far nascere il centrosinistra.

Un giovane democristiano, Fernando Tambroni esponente della corrente del presidente della Repubblica Gronchi, assumeva la Presidenza del Consiglio sostenuto da una maggioranza comprendente il partito neofascista, l’MSI.

Quell’MSI che stava tornando alla ribalta con la sua ideologia e la sua iniziativa, quell’MSI che decise, alla fine del mese di Giugno, di tenere il suo congresso a Genova, Città medaglia d’oro della Resistenza.

L’antifascismo, vecchio e nuovo, disse di no.

Comparvero sulle piazze i giovani dalle magliette a strisce, i portuali, i partigiani.

La Resistenza riuscì a sconfiggere il rigurgito fascista.

Ma si trattò di una vittoria amara, a Reggio Emilia e in altre città la polizia sparò sulla folla causando numerose vittime.

Questi i fatti, accaduti in quell’intenso e drammatico inizio estate di cinquantanove anni fa: è necessario, però, tornarvi sopra per riflettere, partendo da un dato.

Non si trattò semplicemente di un moto di piazza, di opposizione alla scelta provocatoria di una forza politica come quella compiuta dall’MSI di convocare il proprio congresso a Genova e di annunciare anche come quell’assise sarebbe stata presieduta da Basile, soltanto quindici anni prima, protagonista nella stessa Città di torture e massacri verso i partigiani e la popolazione.

Si trattò, invece, di un punto di vero e proprio snodo della storia sociale e politica d’Italia.

Erano ancora vivi e attivi quasi tutti i protagonisti della vicenda che era parsa chiudersi nel 1945, ed è sempre necessario considerare come quei fatti si inserissero dentro una crisi gravissima degli equilibri politici.

Una crisi inserita anche in un mutamento profondo dello scenario internazionale, nel quale si muovevano i primi passi del processo di distensione ed era in atto il fenomeno della “decolonizzazione”, in particolare, in Africa, con la nascita del movimento dei “non allineati”.

Prima ancora, però, dovrebbe essere valutato un elemento di fondamentale importanza: si è già accennato all’entrata in scena di quella che fu definita la generazione “dalle magliette a strisce”, i giovani che per motivi d’età non avevano fatto la Resistenza, ma ne avevano respirato l’aria entrando in fabbrica o studiando all’Università accanto ai fratelli maggiori; giovani che avevano vissuto il passaggio dall’Italia arretrata degli anni’40-’50 all’Italia del boom, della modernizzazione, del consumismo, delle migrazioni bibliche dal Sud al Nord, di una difficile integrazione sociale e culturale.

In questo senso i moti del Luglio ’60 non possono essere considerati semplicemente un punto di saldatura tra le generazioni, anzi rappresentavano un momento di conflitto, di richiesta di cambiamento profondo, non limitato agli equilibri politici.

In quel Luglio ’60, da non considerare – ripetiamo – soltanto per i fatti accaduti in quei giorni, ma nel complesso di una fase di cambiamento della società e della politica, si aprì, ancora, a sinistra, una discussione sulla natura della DC, fino a quel momento perno fondamentale del sistema politico italiano.

Molti si chiesero, a quel momento, se dentro la DC covasse il “vero fascismo” italiano: non quello rumoroso e un poco patetico del MSI, ma quello vero; quello che poteva considerarsi il vero referente dei ceti dominanti, capace di portare al blocco sociale di potere l’apporto della piccola e media borghesia.

Il partito democristiano appariva, dunque, a una parte della sinistra, soprattutto nei giorni infuocati della repressione, come il partito che avrebbe potuto in qualunque momento rimettere in moto in Italia (ricordiamolo ancora una volta: eravamo a soli quindici anni dalla Liberazione) un meccanismo politico–sociale repressivo e autoritario tale da dar vita a nuove esperienze di tipo fascista.

L’analisi sviluppata dal PCI togliattiano fu diversa.

Nonostante le asprezze della polemica quotidiana, il PCI aveva assunto come stella polare di tutta la sua strategia l’intesa con le masse cattoliche, da sottrarre al predominio moderato prevalente dal ’47 in poi (grazie alla “guerra fredda”) al vertice della DC.

Ma la prospettiva non era così ingenua: essa comportava il proposito di far emergere le forze presenti all’interno della DC, anche al vertice del partito.

In quel Luglio ’60 il PCI cercò di operare in quella direzione, e il successo dello sciopero generale, pur macchiato di sangue, si rivelò efficace e significativo anche perché dall’interno della DC si aprì finalmente un varco a quella parte del gruppo dirigente che, sulle rovine dell’esperimento Tambroni, poté riproporre con maggiore efficacia e speranza di esito positivo una soluzione diversa: quella che abbiamo già richiamato delle “convergenze parallele” e, successivamente, del centrosinistra “organico”.

Oggi, a cinquantanove anni di distanza, possiamo meglio valutare l’esito di quei fatti: le contraddizioni che ne seguirono, il rattrappirsi progressivo della realtà riformatrice (a partire dal “tintinnar di sciabole” dell’estate 1964, fino alla disgraziata stagione del terrorismo, aperta nel 1969 dalle bombe di Piazza della Fontana), l’assunzione, in particolare da parte del PSI, via, via, di una vocazione “governista” sfociata nel decisionismo craxiano, i limiti di puro politicismo insiti nella strategia berlingueriana del “compromesso storico”, nello sviluppo abnorme di quella che già dagli anni’50 Maranini aveva definito come partitocrazia (con il contributo di un complessivo “consociativismo” allargato all’intero arco parlamentare) e, infine, nella “questione morale” che segnò, all’inizio degli anni’90, lo sconquasso definitivo del quadro di governo in coincidenza con la caduta del muro di Berlino (sulla quale furono commessi errori di valutazione enormi) e l’avvio, con il trattato di Maastricht, della logica monetarista anti-democratica di gestione dell’Unione Europea sul modello reaganian-tachteriano della crescita delle diseguaglianze economiche e sociali fino alla drammatica attualità che stiamo vivendo in un quadro esaltato da un insieme di valori negativi.

Forse luglio ’60 rappresentò uno degli ultimi passaggi utili per contrastare radicalmente questo processo di involuzione e riproporre alcune radici di fondo della prospettiva resistenziale ma è necessario ammettere, anche in un momento di rievocazione importante come l’attuale, che quel messaggio non fu completamente colto.

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