di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Nella dimenticata guerra
siriana, relegata ormai a una sola provincia, Idlib, succede che
l’atteso scontro alla fine c’è stato: le forze turche – che dall’agosto
2016 occupano il nord della Siria – si sono trovate faccia a faccia con
l’esercito governativo.
Doveva accadere prima o poi che la contraddizione si
palesasse: Ankara, che da fedele alleata del presidente Assad nel 2011
ha cambiato fronte, sostiene in modo diretto i gruppi di opposizione
attivi nella provincia nord-ovest di Idlib e ha costruito 12 «punti di
osservazione», che altro non sono che basi militari nell’ultima provincia che manca a Damasco per riprendere il controllo dell’intero territorio nazionale.
Lo scontro sarebbe avvenuto sabato scorso sotto forma di missili
governativi piovuti – secondo la Turchia – su uno di quei punti di
osservazione, con il ministro degli esteri Cavusoglu che «invitava»
Russia e Iran a tenere a bada Assad: «Fermare il regime è responsabilità
di russi e iraniani».
Mosca aveva già negato la natura bellicosa dell’attacco (le
coordinate le ha date Ankara, dicono i russi) e ieri a parlarne è stato
il ministro degli esteri siriano, Waled Muallem, a Pechino per incontrare l’omologo cinese: «Spero che il nostro esercito non si scontri con quello turco – ha detto Muallem – Noi
combattiamo contro i terroristi, in particolare a Idlib, che è parte
del territorio siriano. La domanda è: cosa vuole fare la Turchia in
Siria? Ha invaso il nostro territorio, ha una presenza
militare. Protegge al-Nusra (il braccio siriano di Al Qaeda, oggi Hayat
Tahrir al-Sham, ndr)?».
Toni affatto concilianti nonostante le premesse, ovvero l’intenzione
di evitare uno scontro diretto che avrebbe effetti sull’intero
(dis)equilibrio regionale: Ankara da anni si è riavvicinata alla Russia,
primo sponsor di Assad insieme a Teheran.
Nessuno ad Ankara, Mosca e Teheran vuole un confronto e la prova
stava nell’accordo che dal settembre scorso metteva in stand by
l’avanzata siriana dichiarando Idlib «zona demilitarizzata». Ma missili
e dichiarazioni al vetriolo sono utili a definire gli equilibri di
potere e – nel caso di Damasco – a evitare che Idlib rimanga a tempo
indeterminato un hub islamista e jihadista qual è oggi.
Con il suo bagaglio di disperazione: tre milioni di
civili residenti nella provincia di cui la metà sfollati da altre zone
del paese; decine di vittime negli ultimi due mesi per la ripresa dei
raid aerei russi e siriani; la vita amministrata da gruppi islamisti
radicali che non hanno mai nascosto il sogno di farne un mini-emirato
sunnita.
E il conto lo pagano i civili, intrappolati tra la controffensiva
russo-governativa e la galassia di milizie che ruota intorno a Tahrir
al-Sham. Secondo l’agenzia Onu Ocha, dal primo aprile al 22 maggio 300mila siriani sono fuggiti dalle province di Hama e Idlib. Trecento i morti, secondo le Nazioni unite.
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