Bisogna distinguere comunque due piani. Quello degli eventi – oggettivi, fatti che accadono – e la narrazione ideologica che ne vien fatta dal sistema dei media tanto più omogeneo al “proprio” pezzo di sistema (al proprio imperialismo, si diceva una volta) quanto più le fratture planetarie si allargano.
Abbiamo scritto spesso che l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti è stata una conseguenza della crisi dell’iperpotenza che sembrava dominare incontrastata sul mondo. I media ce la stanno vendendo come una causa, come se davvero un qualsiasi pirla danaroso possa issarsi su quella poltrona a dispetto di assetti sociali, economici e proprietari solidi.
Vediamo in concreto, cose delle ultime ore. Trump attacca a suo modo – via tweet, come un Salvini qualsiasi – il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, per non aver tagliato i tassi di interesse, rimasti fermi nella “forchetta” tra il 2,25 e il 2,5%.
Una raffica di frasette da bar, tipo: senza le quattro strette decise da Powell nel 2018 «l’indice Dow Jones avrebbe guadagnato migliaia di punti e il Pil americano sarebbe cresciuto tra il 4 e il 5 per cento». Oppure la Fed «non sa quello che sta facendo», agisce come «un bambino testardo che resta fermo sulle sue posizioni», mentre gli Stati Uniti avrebbero bisogno di «tagli dei tassi di interesse e di un allentamento monetario per bilanciare quello che altri paesi stanno facendo contro di noi».
Gli “altri paesi” cattivi in fatto di tassi di interesse sono in primo luogo quelli dell’Unione Europea (la Cina è accusata di dumping sui prezzi e di “furto di brevetti”, senza fondamento). In specifico, la Bce di Mario Draghi, che non solo continua a inchiodare i tassi a zero, ma prepara altri quantitative easing (acquisti di titoli di stato, obbligazioni anche societarie, forse addirittura azioni selezionate).
Bene. La prima cosa da notare è che, su entrambe le sponde dell’Atlantico, il sistema capitalistico occidentale non funziona più senza poderose montagne di “liquidità aggiuntiva”, che per la maggior parte vanno ad alimentare il circuito chiuso della finanza speculativa, con poche o nulle ricadute sull’economia reale. Ossia sul comparto che “fa occupazione”, permette i consumi di massa e, in definitiva, determina il grado della coesione sociale (decisiva dal punto di vista politico).
La seconda è che l’idea dell’”indipendenza della Banca centrale dal potere politico” (parzialmente reale nella Ue, molto meno negli Usa) non funziona più. I tempi della decisione politica (l’azione di governo) e quelli della politica monetaria viaggiano su binari differenti; e i secondi sono molto più lenti, perché fondati su parametri meno labili del “consenso popolare”.
IlSOle24Ore, quotidiano di Confindustria, come ci racconta questo scontro al vertice della superpotenza Usa? In termini ideologici... Tipo: “La politica anti-Fed di Trump tuttavia ha un precedente poco fortunato. All’inizio degli anni ’70 Richard Nixon riuscì a vincere con facilità il secondo mandato alla Casa Bianca dopo aver attaccato l’allora presidente della Federal Reserve per mantenere i tassi d’interesse bassi: l’economia americana entrò in un decennio di crisi con l’ inflazione a due cifre.”
Se il mondo fosse così semplice – l’unica determinante è individua nella politica monetaria, decisa dalla Fed – sarebbe tutto facile. L’articolista, banalmente, ha dimenticato il ruolo di ben due “crisi petrolifere” che, negli anni ‘70 (con Nixon, ma non solo lui) fecero salire di dieci volte il prezzo del petrolio provocando, insieme a un formidabile decennio di lotte salariali (e non solo) in tutto l’Occidente, una rapida ascesa della dinamica dei prezzi.
Ma la situazione è sicuramente più complicata.
Alessandro Fugnoli, strategist del fondo di investimento Kairos, elenca una serie di “quesiti” cui è difficile dare risposta chiara. Per esempio: “se corriamo ad abbassare i tassi e a riprendere in considerazione il Quantitative easing al primo segno di malessere, peraltro non confermato, che cosa ci resterà nell’armadietto dei farmaci il giorno in cui ci sarà davvero una recessione?”. O anche: “Che certezza abbiamo che gli stimoli monetari non si limitino per l’ennesima volta a gonfiare il valore degli asset finanziari senza avere traino sull’economia reale? […] in Europa che differenza può fare quella manciata di punti base che verranno eventualmente tagliati in un contesto in cui le banche non danno credito aggiuntivo e cercano semmai di ridurre strategicamente la loro esposizione?”
Com’è noto, tutta questa richiesta di “allentamento monetario” viene motivata con la necessità di far risalire l’inflazione verso il livello considerato fisiologico per un’economia in espansione (il 2%). Per chi ha visto gli anni ‘70 e ‘80 la cosa appare quasi ironica, perché allora l’unica parola d’ordine mondiale era “abbattere l’inflazione” (l’equivalente dell’attuale “diminuire il debito pubblico”). Però un briciolo di logica (capitalistica) c’è: se i prezzi non salgono almeno di un poco ogni anno, cade anche lo stimolo ad investire per gli imprenditori (che investo a fare se l’economia è ferma?).
Più chiara è la risposta di Jean-Claude Trichet, predecessore di Draghi alla presidenza della Bce: “finché non c’è inflazione salariale non ci sarà nemmeno inflazione generale dei prezzi al consumo”. Ammissione significativa perché indica che la famosa “lotta all’inflazione” era, per il capitalismo occidentale, “lotta ai livelli salariali conquistati negli anni ‘70”.
Hanno ottenuto certo una grande vittoria, ma gli è ricaduta sui piedi come “stagnazione secolare” (a chi vendi, se paghi il lavoro troppo poco?). Se non fosse crollato il Muro – con la successiva “messa al lavoro” capitalistico di un paio di miliardi di persone – quella “stagnazione” si sarebbe verificata molto prima.
E’ arrivata invece ora, diciamo dalla crisi del 2008 ad oggi. E non sembra esserci via d’uscita, perché la potenza manifatturiera, complice l’ansia occidentale di delocalizzare per moltiplicare i profitti aziendali, è ormai fisicamente in altre parti del mondo (Cina, India, Vietnam, Brasile, ecc). E al contrario del denaro, gli stabilimenti industriali – che sempre “capitale” sono – si muovono con grande lentezza.
La “ri-localizzazione” industriale è un processo che gli Usa hanno cominciato a stimolare già con Obama. Ma era già troppo poco e troppo tardi, pare...
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A seguire, vi proponiamo l’editoriale di TeleBorsa, in cui Guido Salerno Aletta esamina da par suo i dilemmi che avvolgono la Bce e, di conseguenza, tutta l’Unione Europea.
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Guaio grosso a Francoforte
L’attacco di Trump a Draghi mette sotto accusa le politiche europee
Guido Salerno Aletta – Editorialista dell’Agenzia Teleborsa
Era una riunione come tante altre, quella di pochi giorni fa a Coimbra, città portoghese famosa per la sua antica università, cui ha partecipato il Governatore della BCE Mario Draghi. Riferendosi alle prospettive della politica monetaria della BCE, Draghi non ha escluso che, se dovessero peggiorare le prospettive in ordine alla inflazione, non è da escludere una riduzione dei tassi di interessi sull’euro e una ripresa degli stimoli monetari. In ogni caso, ha aggiunto, anche la politica di bilancio degli Stati dell’Eurozona, sottintendendo quelli che hanno condizioni di pareggio o di avanzo, deve fare la sua parte. Sembrava un richiamo, neppure tanto velato, alla posizione della Germania, sempre restia ad allargare i cordoni della borsa.
Draghi non aveva neppure finito di parlare, che sui mercati valutari il vento è girato velocemente: la moneta europea ha cominciato ad indebolirsi rispetto al dollaro. D’altra parte, è prassi, ormai: i Governatori delle Banche centrali annunciano ai mercati le loro intenzioni, o quanto meno le loro preoccupazioni, in maniera tale da orientare subito le attese degli operatori. In questo modo, quando le decisioni divengono operative, già ne sono stati scontati gli effetti. Molti anni fa, invece, le riunione delle Banche centrali erano circondate da grande riservatezza, e si annunciavano le decisioni senza alcun preavviso: i mercati reagivano, talora scompostamente. Per evitare questi contraccolpi, ora va di moda la prassi di preparare tempestivamente gli operatori, con la “forward guidance“.
La reazione durissima di Donald Trump, con il solito tweet, non si è fatta attendere. Draghi ha preannunciato una prospettiva di politica monetaria che avvantaggerebbe impropriamente l’Eurozona: la svalutazione dell’euro avvantaggia in modo scorretto le esportazioni verso gli Usa, ed è dunque fortemente lesiva degli interessi commerciali americani. In una nota di risposta, Draghi ha precisato che l’obiettivo della BCE non è assolutamente quello di svalutare l’euro, e che le sue decisioni perseguono unicamente la prescrizione dello Statuto, che fa obbligo alla BCE di mantenere la stabilità monetaria, quella che si ottiene quando l’inflazione annua è vicina, ma non superiore, al 2%.
Naturalmente, in tanti hanno cominciato a criticare la sortita di Trump: non è stato forse lui stesso a suggerire al Presidente della Federal Reserve di smetterla di alzare i tassi di interesse per non nuocere all’economia americana, visto che il primo effetto è un aumento del valore del dollaro sui mercati valutari? E poi, tassi di interesse più alti costano un bel po’ di quattrini in più alle imprese ed ai cittadini americani. Per non parlare poi del danno che subiscono i debitori in dollari dei Paesi emergenti. Insomma, Draghi avrebbe preannunciato la medesima cautela che Trump ha vibratamente chiesto alla Fed.
La verità è che, in questi anni passati, la politica monetaria eccezionalmente accomodante della BCE, che avrebbe dovuto portare i tassi di inflazione vicino al 2%, è stata un fiasco clamoroso. Nonostante i tassi a zero sulle operazioni di rifinanziamento principale e quelli negativi dello 0,40% sui depositi di liquidità ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria, e nonostante gli oltre 2 trilioni di euro di liquidità immessa acquistando titoli del debito pubblico con il Qe, l’inflazione non si è mai schiodata dall’1%. Solo in Germania, dove l’economia non ha mai smesso di tirare, i prezzi tendono al 2%.
Va ricordato poi che, nel recente passato, l’effetto di svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, di oltre il 20%, si ebbe immediatamente a ridosso dell’annuncio del Qe da parte di Draghi, a Davos, a gennaio 2015: quando il programma iniziò, nel mese di marzo, si era arrivati quasi alla parità tra le due monete.
Non c’è dubbio che neppure Draghi, come già il suo predecessore Trichet, sia riuscito nella Exit Strategy dalla crisi. La conclusione del Qe, a dicembre 2018, doveva segnare la fine delle politiche monetarie eccezionalmente accomodanti, anche se i tassi di interesse sarebbero rimasti fermi allo zero ancora per molti mesi. Poi c’è stato l’annuncio di una nuova TLtro, per favorire il credito bancario.
Stavolta, dopo l’intervento di Draghi a Coimbra si aprono quattro fronti:
- quello con gli Usa, che non possono tollerare che l’Eurozona, che è già in attivo commerciale strutturale con gli Usa, possa svalutare la propria divisa favorendo indebitamente il proprio export. L’Unione europea, sulla base di una impostazione mercantilistica dei rapporti internazionali, esporta disoccupazione e deflazione verso il resto del mondo: dovrebbe rivalutare l’euro, non svalutarlo;
-quello relativo all’efficacia della politica monetaria e della vigilanza bancaria prudenziale della BCE: l’inflazione non è mai ripartita, mentre il credito ai privati, ad esempio in Italia, è diminuito di circa 200 miliardi di euro;
- quello della efficacia della politica di bilancio dall’Eurozona: il Fiscal Compact impone agli Stati il pareggio strutturale del bilancio e la riduzione del rapporto debito/pil, senza tener conto delle circostanze avverse se non con clausole di flessibilità poco incisiva.
E’ da un anno, ormai, che anche l’economia tedesca è entrata in una fase di forte rallentamento, e così l’Italia che ne è un suo principale fornitore. L’inflazione non riparte perché i produttori riducono in modo ossessivo i propri costi, ivi compresi quelli salariali, perché gli Stati sono costretti a tagliare le spese e ad aumentare le entrate, mentre il sistema del credito è rimasto bloccato per via del divieto di creare Bad bank pubbliche che assorbissero gli effetti negativi delle crisi. Tutto il sistema del credito si è impastato in una panoplia di procedure: non performing loans da cedere ai servicers, i crediti unlikely to pay da trasferire ad operatori specializzati, ricapitalizzazioni senza mercato cui attingere e margini di interesse assolutamente irrisori.
Dopo dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria americana, l’Europa si ritrova di fronte alla frantumazione del suo sistema politico tradizionale, alla assoluta incertezza istituzionale circa il futuro dell’Unione, ad una mancanza completa di soluzioni alternative.
Parlare di riduzione dei tassi di interesse, quando sono già a zero, è paradossale.
Parlare di nuove misure monetarie espansive è quasi umoristico, visto che non hanno avuto alcun effetto concreto sull’inflazione.
E’ ridicolo, poi, parlare di politiche di bilancio, senza aver risolto prima il nodo degli spread sul debito pubblico che incatenano un Paese come l’Italia, che ha una bilancia commerciale strutturalmente attiva, che esporta risparmio all’estero, e che ha una posizione finanziaria netta in sostanziale equilibrio.
La Banca centrale europea ha fatto errori catastrofici: ha buttato dalla finestra oltre due trilioni di miliardi di euro comprando debito pubblico, anche quello tedesco che ha rendimenti negativi. Doveva solo intervenire per evitare che gli spread superassero i 50 punti base, e non lasciare che superassero i 500 punti base.
Non esiste una Unione monetaria che possa tollerare socialmente, politicamente ed economicamente queste divaricazioni.
Le conseguenze di queste assurdità sono finalmente sotto gli occhi di tutti.
L’attacco di Trump a Draghi mette sotto accusa le politiche europee.
Guaio grosso a Francoforte.
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