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29/06/2019

Egitto - L'economia a un passo dalla bancarotta

Pino Dragoni

«L’economia egiziana è al collasso». Tra debito, austerità e una gestione privatistica del potere, il rischio è che l’Egitto possa presto ritrovarsi in piena bancarotta, il «primo passo su una strada sempre più angusta verso il totale fallimento dello Stato».

A lanciare l’allarme dalle colonne virtuali della rivista Foreign Policy è Yehia Hamed, ex ministro degli investimenti nel governo di Mohamed Morsi, rovesciato dal colpo di stato militare del 2013.

Recentemente una banca di investimenti ha definito l’Egitto «la più attraente storia di riforma» in Medio Oriente, Africa ed est Europa e in molti tra istituzioni finanziarie ed esperti continuano a lodare la ripresa egiziana e i successi ottenuti da al-Sisi nella stabilizzazione degli indicatori macroeconomici. Ma cosa si nasconde dietro i toni trionfalistici e le rosee prospettive di rilancio?

L’articolo di Hamed snocciola una serie preoccupante di dati e definisce «un grande inganno» quello che per molti è il miracolo economico egiziano degli ultimi anni.

Dal 2014 (da quando cioè al-Sisi è al potere) il debito estero è quintuplicato, superando i 96 miliardi di dollari, un record storico per il paese (solo tra il 2017 e il 2018 l’aumento è stato del 17%). Nello stesso periodo il debito interno è più che raddoppiato, facendo schizzare il rapporto debito/Pil dal 87,1% del 2013 al 101,2% del 2017.

Ma l’aspetto più grave è il costo del debito sulle finanze dello Stato. Secondo i dati della Banca Centrale egiziana il paese oggi spende ben il 38% del suo budget statale solo per ripagare gli interessi sul debito. Se a ciò si aggiungono i prestiti contratti, si arriva a un impressionante 58% del bilancio. Il paradosso è che oggi l’Egitto continua a indebitarsi principalmente per coprire il costo dei crediti ottenuti in passato.

Non è chiaro fin quando i creditori internazionali saranno disposti a dare fiducia a un paese così fortemente esposto, mentre il sostegno dei partner del Golfo resta intermittente e dipende in gran parte da condizioni politiche.

Ma cosa ha portato a questa situazione? Come intende affrontarla il governo egiziano? E quali sono le conseguenze per la popolazione?

La massiccia svalutazione della lira egiziana del novembre 2016 ha ulteriormente indebolito la capacità di far fronte all’indebitamento. Intanto la crescita del Pil è rimasta bassa, anche a causa di un calo sostanzioso dell’export e del turismo, trainata solo da gas e petrolio. Ma secondo Maged Mandour, analista del think tank Carnegie, la vera causa di questa «crisi del debito» sarebbe la gestione economica dei militari al potere.

In questi anni una gran parte degli aiuti, prestiti e investimenti sono andati a finanziare progetti faraonici con uno scarso impatto sul tessuto produttivo del paese, come il raddoppio del canale di Suez (8 miliardi di dollari) e la costruzione della nuova capitale amministrativa (secondo alcune stime potrebbe costare fino a 300 miliardi di dollari).

Inoltre tra 2013 e 2017 l’importazione di armamenti è aumentata del 215% rispetto ai quattro anni precedenti, facendo dell’Egitto il terzo importatore mondiale di armi al mondo.

Per garantirsi il sostegno dei livelli più alti dell’esercito, il regime di al-Sisi ha lasciato che i generali si arricchissero espandendo notevolmente le loro attività economiche. Godendo di numerose esenzioni fiscali e di un accesso privilegiato agli appalti pubblici, le imprese che fanno capo alla Difesa hanno ormai tentacoli in tutti i settori più remunerativi dell’economia egiziana: dal cemento ai pannelli solari, dai resort turistici agli allevamenti ittici. Il ministero della Produzione militare quest’anno ha annunciato che i profitti delle sue imprese saranno quintuplicati rispetto al 2013-14.

Secondo un’inchiesta di Reuters, una concorrenza così spietata e iniqua spaventa gli investitori soprattutto stranieri, che si tengono alla larga dai settori in cui si concentrano gli interessi dei militari, facendo così crollare anche l’afflusso di capitali esteri.

Il ministro delle Finanze promette di riportare il rapporto debito/Pil all’80% entro il 2020 attraverso la riduzione del deficit. Ma non potendo contare su maggiori entrate dovute alla crescita, l’unica ricetta applicata finora sono tagli alla spesa e aumento della pressione fiscale.

A guidare questo processo dal 2016 è il Fondo monetario internazionale, che in cambio di un prestito da 12 miliardi di dollari ha imposto un durissimo piano di austerità, applicato alla lettera dal regime. Il governo ha puntato sull’introduzione dell’Iva per aumentare le entrate (imposta regressiva perché colpisce più duramente le classi medie e basse), mentre negli ultimi quattro anni è diminuito il gettito delle imposte sui profitti delle imprese.

Ma la misura più drammatica è il taglio dei sussidi, soprattutto quelli sull’energia e i carburanti, che per decenni hanno permesso agli egiziani più poveri di poter consumare a prezzi calmierati. Entro fine giugno il governo si appresta a eliminare definitivamente i sussidi sull’elettricità (causando un aumento del 15% nei prezzi) già tagliati del 30% nel 2016, del 40% nel 2017 e del 20% nel 2018. L’effetto sarà di aumentare ulteriormente il costo della vita e l’inflazione, salita dell’1,1% solo nel mese di maggio (è al 14,4%).

Tutto ciò in un paese in cui, per ammissione della stessa Banca mondiale, «il 60% della popolazione è povero o vulnerabile e le diseguaglianze sono in aumento». La popolazione è piegata da anni di austerità e sviluppo diseguale. Il Times ha raccontato che durante questo Ramadan si è creato un commercio di scarti di cibo avanzati da hotel e ristoranti.

Dall’inizio delle riforme il governo non diffonde più i dati sul tasso di povertà, che già nel 2015 era al 30% e secondo molti era già stimato largamente per difetto.

Per quanto ancora il castello di carte reggerà e fin quando gli egiziani sopporteranno?

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