Parla Abu, il volto noto delle lotte dei braccianti e autore di “Umanità
in rivolta”: “I sindacati hanno perso il rapporto sentimentale con le
sofferenze delle persone, bisogna ritornare tra gli esclusi”. Il compito
è unire forme di lavoro diverse: “La lotta di un rider è la stessa di
un facchino o di un operaio: fanno tutti parte della stessa classe e
rivendicano diritti e dignità”. E su chi parla di dumping salariale a
causa degli immigrati, replica: “È la trappola della globalizzazione
liberista”.
intervista a Aboubakar Soumahoro di Giacomo Russo Spena
Se Voltaire visitava le carceri per constatare la civiltà di una
nazione, Aboubakar Soumahoro lo fa valutando le condizioni del lavoro. E
il responso è dei peggiori: “Siamo una democrazia malata”. Abu – il suo
soprannome – è il sindacalista degli ultimi o, come li ha definiti Papa
Francesco durante il loro incontro, dei “dannati della
globalizzazione”. Ivoriano, 38 anni, laureato in sociologia, è attivista
sindacale per l’Usb (Unione Sindacati di Base). Con un passato da
clandestino, ora cittadino italiano, conosce la fatica del lavoro:
operaio, muratore, bracciante, addetto alla logistica. Abu è il volto
noto delle lotte al Sud contro il caporalato. Ma non solo. Nell’era
della precarietà legalizzata, parla di sfruttamento per indicare “le
tante donne e i tanti uomini che lavorano in cambio di un salario che
non garantisce una sopravvivenza dignitosa”. I suoi riferimenti
culturali sono Gramsci e Di Vittorio: coniuga i loro insegnamenti con
quelli di chi ha combattuto il razzismo coloniale (Sankara e Fanon).
Recentemente ha scritto il libro-denuncia “Umanità in rivolta” (Feltrinelli,
2019) che racconta la storia di persone oppresse che si battono per il
diritto alla felicità. Partiamo da qui, nella nostra conversazione.
Nel
libro racconta le varie forme di sfruttamento che esistono in Italia,
da Nord a Sud, e che riguardano lavoratori stranieri come italianissimi.
Sostiene ci siano in Italia “nuove forme di schiavitù”, non è esagerato
affermare ciò?
Quanto si sta verificando a livello
italiano, se non internazionale, riguarda una partita in cui i
protagonisti sono espressione di una diversità che Bauman ha definito
società cosmopolita. E tale partita si gioca all’interno di un solo
paradigma: il paradigma economico. Esiste il precariato diffuso - è vero
- si diffonde il digitale, si utilizza finanche un nuovo linguaggio, ma
questo paradigma porta con sé una condizione arcaica di sfruttamento.
Una volta i padroni tenevano molto alla salute degli schiavi, oggi i
soggetti vulnerabili sono i più appetibili. Le nuove forme di lavoro
portano con sé visioni che spogliano le persone della loro dignità
perché disumanizzanti. Ecco, Gramsci direbbe “siete tutti sotto un rullo
compressore dello stesso paradigma”.
Dal pacchetto
Treu al Jobs Act, sono vent’anni di precarizzazione e di deregulation
del mercato del lavoro che ha portato a meno diritti e all’abbassamento
salariale. Il lavoratore, ormai solo e in una società atomizzata, come
può uscire dall’angolo?
Solo se avviamo processi che
portano alla costruzione di una coscienza politica collettiva. Scusi il
pleonasmo, ma è utopico pensare di uscire da soli dall’angolo. Va
assunta una dimensione collettiva e rispolverata una parola semplice:
unione.
Nel pratico, però, come si organizza questa unione?
Bisogna fare formazione. I lavoratori spesso non conoscono nemmeno i
propri diritti arrivando a normalizzare lo sfruttamento e l’idea di
essere merce nelle mani dei padroni. Poi, oltre alla dimensione
materiale, c’è quella immateriale: la povertà delle coscienze spinge ad
arrendersi pensando che non ci sia più possibilità di cambiamento. Se ne
esce soltanto mettendo insieme corsi di formazione e presenza sui
territori che siano periferie urbane o aree rurali. La solidarietà, a
questo punto, diventa una necessità.
Quindi le parole sono “unione”, “formazione” e “solidarietà”?
Non solidarietà passiva, che sia il frutto di un legame tra soggetti
diversi accomunati da medesimi bisogni. Tutti reclamano protezione
sociale, tutela del welfare o un lavoro dignitoso. Ripartiamo dai
concetti base: stesso lavoro, stessa paga. Vediamo, poi, cosa lega – non
cosa divide – un rider di Bologna con un bracciante agricolo del Sud
piuttosto che con un lavoratore della logistica o un precario del
mondo dell’informazione...
Cos’è che li accomuna?
Il lavoro a cottimo, ad esempio. Chiamando le cose coi loro nomi è più
semplice e si stabiliscono percorsi unitari tra lavoratori
apparentemente diversi.
Lo strumento da adottare per organizzare il “conflitto” rimane il sindacato? Serve ancora?
Una volta si parlava di conflitto capitale/lavoro, ora penso sia più
importante porre l’accento sul rapporto capitale/natura. Mi spiego. È
superata la dicotomia padroni, da un lato, e sindacati, dall’altro,
perché così sfugge l’idea di complessità delle nostre vite: le persone,
prima di essere lavoratori, sono esseri umani. Non possono più esistere
strutture totalizzanti come un tempo. Al di fuori del perimetro del
lavoro c’è una vita, ci sono altre forme di organizzazione. Il sindacato
è, allora, solo una parte di questo cammino.
Negli
anni i sindacati, almeno i confederali, hanno perso credibilità agli
occhi dei cittadini perché percepiti come una Casta: una sorta di centri
per l’impiego incapaci di rappresentare le nuove figure sociali
emergenti. I sindacati devono attuare una profonda autocritica?
Nel libro scrivo che abbiamo perso il rapporto sentimentale con le
sofferenze delle persone, con la loro privazione di diritti e dignità.
Si è perso questo rapporto con gli invisibili. Oggi va ricercato questo
rapporto tornando al fianco degli esclusi.
Quindi crede ancora nella forma sindacato?
Sì, ma il rinnovamento deve passare per tre elementi. Uno: la
credibilità nell’agire sindacale, quella credibilità ormai smarrita.
Due: la pluralità, questione basilare già trattata nel 1944 – come ci
ricorda Vittorio Foa – dalla CGIL unitaria. La pluralità è l’antitesi al
monopolio della rappresentanza sindacale. Tre: la prospettiva
strategica. Che facciamo per organizzare le varie forme del precariato
diffuso? Ci chiudiamo su noi stessi nostalgici di un mondo che non
tornerà più? Così, sicuramente, di fronte all’avanzamento dei nuovi
lavori e della digitalizzazione si va verso l’estinzione del sindacato.
Propongo, piuttosto, di trovare un’utilità dell’agire sindacale
all’interno di questi progetti. Il tema è questo. In che modo
organizzare uno sciopero in un ambito dove il datore di lavoro è
un’applicazione nelle mani di un rider?
Bel dilemma, come?
È necessario interpretare queste forme, interfacciarsi con esse, dando
anche una dimensione internazionale. Bisogna alzare dei paletti e
ribadire con forza che gli slogan ‘prima gli italiani”, “prima i
francesi” o “americans first” non risolvono il dramma sociale dei
lavoratori. Il sindacato deve riassumere una vocazione internazionale. E
basta organizzare convegni e seminari pieni di elaborazione teorica
fine a se stessa. Le politiche concertative hanno fallito, è l’ora di
ricominciare a lottare sporcandoci mani e piedi nelle contraddizioni
della società.
Come replichi ai sovranisti – di ogni
rango – che ritengono sia stata proprio l’immigrazione ad aver abbattuto
i salari e diritti dei lavoratori?
Ci era stato
detto che la globalizzazione avrebbe portato maggiore equità e
redistribuzione della ricchezza. Successivamente, c’è stato raccontato
che la flessibilità avrebbe portato maggior lavoro e mai la precarietà. E
tante altre cose ci sono state promesse e assicurate. Mentre oggi di
fronte all’evidenza degli errori cosa avviene? Che gli stessi narratori
ammettono – penso persino a Juncker – di aver sbagliato e di aver
equivocato. All’interno di alcuni processi storici, ci sono sempre stati
figure ed intellettuali che hanno giustificato la validità di
determinate ricette, senza rendersi conto delle infauste ricadute. Li
definisco, semplicemente, disorientatori.
Sì, ma come
replichi a chi dà colpa agli immigrati che accettano di farsi
schiavizzare se si abbassano le tutele nel mondo del lavoro?
È la globalizzazione liberista che si poggia su una dimensione
razzista: ci vogliono far credere che la soluzione non passi più per la
lotta contro lo sfruttamento imposto dal capitale ma passi per la
stigmatizzazione di una parte della popolazione. Beh, non è così. I
nostri problemi oggi non sono i migranti, si chiama disuguaglianza
sociale, si chiama precarietà legalizzata, si chiamano anziani senza una
pensione dignitosa, si chiamano giovani formati eppure senza futuro.
Quegli stessi giovani che fuggono dall’Italia proprio come altri
“dannati della globalizzazione” che invece vorremmo respingere facendoli
morire in mare. Il tema è garantire diritti e salari a tutti i
lavoratori, non metterli gli uni contro gli altri.
Dopo
la storia di Gabicce, dove il sindaco si è lamentato del fatto che non
si trovano i bagnini stagionali perché percepiscono il reddito di
cittadinanza si sta affermando il mantra: “Il lavoro c’è, sono i giovani
che sono fannulloni e non vogliono lavorare”. Che ne pensa?
Capiamoci bene su cosa intendiamo per lavoro. Quando l’Istat afferma
che c’è un aumento dell’occupazione, evidenzia un dato quantitativo.
Quel che viene dimenticata è la dimensione qualitativa. Spaccarsi la
schiena per 4 euro l’ora è giusto? Pensiamo ai tanti giovani pagati coi
voucher, si dirà che è un lavoro ma secondo i parametri della nostra
Costituzione siamo sicuri che veramente è tale? Abbiamo lavori
qualificati o lavoratori impoveriti? Per dirla meglio, come insegna Di
Vittorio: è giusto che una persona sia considerata “occupata” pur senza
riuscire ad affrontare i propri bisogni vitali? Prima di blaterare di
giovani fannulloni, queste sono le domande da porsi e a cui dare una
risposta.
Esistono ancora la classi? Ci credi ancora a tale termine?
La classe c’è e c’è sempre stata ma, rispetto al passato, si è dispersa
in varie manifestazioni. I braccianti che raccolgono gli agrumi nella
piana di Gioia Tauro non fanno parte della stessa classe degli addetti
alla logistica del Nord Italia? O i lavoratori e le lavoratrici
domestici cosa sono? I precari dell’informazione, chi sono? E ancora: i
pubblici dipendenti, chi sono? Appartengono tutti alla stessa classe, il
nostro dovere è metterli in relazione tra loro.
(19 giugno 2019)
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