di Giovanni Iozzoli
In un’escalation micidiale, preoccupante ed esaltante, la lotta ai
cancelli dell’Italpizza sta continuando giorno dopo giorno – sotto le
piogge dispettose di maggio come sotto il caldo torrido e spossante di
questo fine giugno. Ormai da mesi, i bravi cittadini modenesi – almeno
quelli non abituati a girare sempre la testa dall’altra parte – stanno
assistendo a un crescendo di cariche poliziesche, pestaggi e lanci di
lacrimogeni, sparati addosso – principalmente – a donne armate solo
della loro tenacia, che cercano di strappare a questa azienda perla
dell’agroalimentare italiano, condizioni un minimo dignitose di vita e
di lavoro: perché in questi tempi cupi, la divisione sindacalese tra
contrattazione “acquisitiva” e “difensiva” non esiste più – nelle
aziende spesso si lotta per sopravvivere, per strappare al padrone
qualche centesimo in più di paga oraria, il diritto alle pause, ai
bagni, al non essere considerata merce disponibile 24 ore su 24. E la
sproporzione drammatica tra la quantità di lotte necessarie e la qualità
modesta delle rivendicazioni, dà la cifra dello sprofondamento di
questo paese di merda nel suo passato più regressivo.
Il sindaco – appena rieletto – tifa per l’azienda, così come la
stragrande maggioranza del quadro politico e dei mezzi di informazione.
La Cgil si è impantanata in un tavolo che le porterà solo ulteriore
discredito e perdita di iscritti dentro quel sito. Ogni giorno un
reparto di energumeni in divisa, bardati come se andassero in missione
all’estero, attacca questi presidi sostanzialmente indifesi: ad animarli
sono cobas, sono stranieri, sono donne – la loro incolumità e la loro
fedina penale vale poco, sul mercato della cittadinanza in cui tutti
noi, oggi, siamo pesati per censo e potere sociale – nella modernità
“castale” che caratterizza le nostre società. Associazioni come Non una
di meno, Case del Popolo, comitati per il boicottaggio di Italpizza,
realtà di base, delegati sindacali del territorio – chi può sta cercando
di esprimere solidarietà a questa cruciale battaglia popolare: il resto
di quel che residua della famosa “società civile” (di cui fino a
qualche anno fa si favoleggiava ampiamente, insieme all’altra chimera: il ceto medio riflessivo...),
tace e acconsente, dando ormai per scontato che il mercato del lavoro
debba essere strutturato a gironi – come l’inferno dantesco – e che sia
necessaria e fisiologica per il funzionamento del sistema, una massa –
crescente – di neoschiavi “multiservizi” (com’è denominato il loro
contratto prevalente).
La tensione sta salendo, dicevamo. Il caldo torrido, la disperazione,
gli scioperi che falcidiano stipendi già miserabili. Ormai è in gioco
la dignità: le persone hanno fatto quel famoso “scatto” che trasforma i
mesi in anni e fa crescere la coscienza di sé oltre la miseria della
propria condizione di merce. L’atmosfera è quella che è, pesante, acida.
Ci si butta davanti alle ruote dei camion. Si è storditi dai
fetentissimi gas CS, si ruzzola sul tappeto di lacrimogeni che ormai
nessuno raccoglie più, come fossero un arredo stradale. Basta poco.
Forse il 14 settembre del 2016, davanti alla GLS di Piacenza, il clima
era anche migliore di quello che si registra oggi all’Italpizza;
probabilmente nessuno si aspettava quello che successe quella mattina
piena di luce padana. Ahmed Abdel Salam, nel corso di un presidio
davanti a quell’obbrobrio di capannone grigiastro, fini sotto le ruote
di un Tir che stava cercando di bypassare i manifestanti schierati
davanti ai cancelli, per portare fuori il suo preziosissimo carico di
cianfrusaglie e salvarlo da quell’embargo dei poveri che è il picchetto
operaio. E quando ci scappa il morto, tutti – dopo – corrono a prendere
posizioni responsabili e pacificatrici: inni al dialogo, recriminazioni,
associazioni datoriali costernate, solenni denunce sindacali, ispezioni
ministeriali. Ecco, sulla vicenda Italpizza oggi – chi vuole, chi se la
sente, chi ha ancora un po’ di sangue nelle vene o di coraggio civile o
di consapevolezza del suo ruolo se fa il sindacalista, o anche se è un
semplice cittadino che non si rassegna al ruolo assegnatogli di pubblico
televisivo e platea elettorale – ebbene, sulla vicenda Italpizza,
dicevamo, facciamo in tempo a parlare prima che il sangue operaio bagni l’asfalto come successe a Piacenza tre anni fa.
Non è scontato lo schieramento. Il nemico è solido. L’azienda è agguerrita,
attrezzata, unge molte ruote, cura i rapporti con la stampa, gestisce
finte informatissime pagine Facebook che incitano al crumiraggio e
all’ostilità antioperaia. E la Questura è criminalmente determinata a
fornire la sua manovalanza al servizio del padrone – e queste cose, si
sa, sono decise a Roma, perché quando Salvini parla di sicurezza
è precisamente della sicurezza delle tante Italpizza d’Italia, che si
preoccupa, altro che i barconi. Quindi, la partita a San Donnino è
cruciale, di sicuro spessore nazionale, di valore esemplare – sui temi
degli appalti interni e dell’assetto del mercato del lavoro italiano. Si
può provare a farlo diventare davvero un terreno ricompositivo,
generale, per tutti quelli che in questo lungo anno di governo hanno
arrancato nel tentativo di capire qual è il “punto d’attacco” con cui
contrastare l’esecutivo gialloverde: Salvini è lì, dietro le inferriate
di Italpizza, ci sta sfidando, ci fa ciao con la manina, ci invita a
giocarcela fino in fondo. Sa che fino a quando le operaie e gli operai
di Italpizza restano soli, il suo Governo non deve temere nulla – perché
vuol dire che il paese è ancora in stato neurovegetativo, che nessuno
potrà scuotere il laido consenso di cui gode.
Qualche giorno fa, un docufilm realizzato e trasmesso da Sky – Il Mostro di Modena
– ha rilanciato in città la memoria di un presunto serial killer che
agì sul territorio negli anni ’80 e poi sparì nel nulla, ignoto e
impunito. Il prodotto è risultato di grande qualità e ha coinvolto molto
l’opinione pubblica, che aveva rimosso quelle antiche storie. Chi ci
pensava più, al Mostro di Modena? Suggestionato da questa visione
televisiva, il nuovo Capo della Procura Giovagnoli, ha chiesto alla sua
polizia giudiziaria di tirare fuori i vecchi faldoni delle inchieste di
35 anni fa, per verificare se sussistano oggi elementi utili per
riaprire le indagini sul Mostro.
Certo, con la folla di mariti e fidanzatini assassini che continuano a
“mostrificare” gli ambienti familiari, seminando morte e violenza,
l’idea di questo vecchio serial killer in circolazione non spaventa più
nessuno. Anche su quel terreno, ne abbiamo fatta di strada. Però viene
da chiedersi: se basta un programma televisivo a riattizzare gli
interessi della Procura su vecchie tragedie, perché non proviamo a
spedire a Giovagnoli almeno una parte delle molte inchieste
giornalistiche (anche televisive) che hanno raccontato in questi anni il
distretto carni, la filiera agroalimentare e altre velenosissime
specialità in salsa emiliana? Perché non gli mostriamo il racconto
drammatico e rabbioso delle vite piegate e spremute di migliaia e
migliaia di operai e di operaie che lavorano nella vetrina
dell’eccellenza emiliana, ricavandone meno del minimo vitale? Se basta
la visibilità televisiva, per occuparsi dei crimini, i “mostri”
dell’imprenditoria modenese – quelli che stanno forgiando un nuovo
perverso “modello emiliano” – hanno già accumulato un bel po’ di meriti e
celebrità. Già, mentre cerchiamo di scovare i fantasmi dei vecchi
killer della nostra memoria, cerchiamo di chiederci: chi sono oggi i
nuovi Mostri di Modena? Chi ci sta uccidendo, lentamente, ogni giorno,
corrompendoci e assuefacendoci alle sue brutture e alle ragioni dei suoi
profitti?
Manganelli quattro stagioni – Cap. I
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