Intervenendo sabato scorso alla Conferenza su cooperazione e rafforzamento della fiducia in Asia (CICA), a Dušanbe, il Presidente cinese Xi Jinping ha detto che gli stati asiatici devono dotarsi di una “nuova architettura di sicurezza regionale. Dobbiamo reagire insieme alle sfide e creare un nuovo ambiente di sicurezza e sviluppo”: una variante asiatica della NATO, insomma. «È necessario attenersi a obiettivi e principi dell’ONU, rispettare sovranità, indipendenza e integrità territoriale di ogni paese. Bisogna rinunciare ai giochi a somma zero e protezionismo” ha detto Xi. Chi deve intendere, intenda.
Appena poche ore prima, a Biškek, il 19° vertice della Shanghai Cooperation Organisation (SCO) illustrava le nuove regole del gioco in Asia, allargando la propria area di interesse. A beneficio di quale uditorio siano stati approvati i documenti del summit, è chiaro già dal preambolo: “il panorama geopolitico diventa multipolare, i legami tra i paesi si fanno più stretti”, nonostante che “la situazione economica mondiale rimanga instabile” e il “processo di globalizzazione economica si scontri con un aumento delle misure protezionistiche unilaterali e altre sfide nel commercio internazionale”.
Si assiste a una redistribuzione “dell’equilibrio globale, principalmente per la formazione di nuovi centri di sviluppo in Asia”: si certifica così che, chiusa l’epoca “unipolare”, l’Occidente sta cominciando a perdere colpi, nella concorrenza con l’Oriente.
Significativo, che per la prima volta si parli ufficialmente di Eurasia, per “utilizzare il potenziale di paesi della regione, organizzazioni internazionali e unioni multilaterali”, per formare in “Eurasia uno spazio di cooperazione aperto, di reciproco e uguale vantaggio“. Non a caso, nota su iarex.ru Vladimir Pavlenko, Bloomberg scrive allarmata della prospettiva di un controllo russo-cinese sull’Eurasia e consiglia a Washington di “sostenere l’Europa e rafforzare la rete di alleanze e partnership con tutta la periferia asiatica”: ammesso che non sia troppo tardi, con un’Europa che sopporta sempre meno le sanzioni anti-russe e allarga sempre più i rapporti con Pechino.
In maniera univoca, la linea che ha saldato l’approccio russo-cinese ai vertici CICA e SCO sembra esser stata quella di sloggiare i soggetti “estranei” dall’Eurasia: dopo che a Biškek si sono date garanzie alle repubbliche dell’Asia centrale, a Dušanbe Putin e Xi, in una serie di incontri bilaterali, hanno lanciato un messaggio trasparente a Washington, Londra, Tel Aviv.
Di più: se al 18° vertice di Qingdao si era sostenuta l’adesione non permanente di Kirghizia e Tadžikistan al Consiglio di sicurezza ONU, al 19° si è fatto lo stesso per India e Pakistan. Ora, dato che l’India, insieme a Germania, Giappone e Brasile, era in lizza per lo status di membro permanente, nota ancora Pavlenko, questo è un avvertimento per chi sta promuovendo la riforma del Consiglio di sicurezza e tale virata è connessa all’ingresso di Delhi nella SCO, sostenuto da Russia e Cina.
Anzi, un incontro a tre Putin-Xi-Modi è tra gli eventi più attesi in margine al prossimo vertice G-20 a Osaka, che potrebbe far seriamente traballare i piani occidentali per orientare l’India contro Cina e Russia.
Forse casualmente, i vertici di Biškek e Dušanbe hanno seguito di appena un paio di settimane il rapporto del Pentagono sugli obiettivi USA nella regione indo-pacifica, giudicata la più importante “per il futuro dell’America”, con la metà della popolazione mondiale e il 60% del PIL planetario.
I paesi dell’area dispongono di 7 dei 10 più potenti eserciti del mondo e 6 di essi detengono l’arma nucleare; ci sono qui 9 dei 10 maggiori porti della terra, che smistano il 60% del commercio internazionale; un terzo dei traffici marittimi mondiali transita per il mar Cinese meridionale. Il commercio USA coi paesi della regione raggiunge i 2,3 trilioni di dollari e gli investimenti diretti USA 1,3 trilioni; un quarto delle esportazioni USA è destinato a questa regione e quelle verso Cina e India sono più che raddoppiate negli ultimi dieci anni.
A inizio giugno, anche Pechino aveva pubblicato il “Libro bianco” sui rapporti commerciali Cina-USA. Nel 2018, il volume del commercio reciproco di beni e servizi ha raggiunto i 750 miliardi di dollari e gli investimenti diretti bilaterali i 160 miliardi dollari. Le dogane cinesi hanno registrato una crescita del commercio dai 2,5 miliardi del 1979, ai 633,5 miliardi del 2018: la Cina è il più forte partner commerciale degli USA, il terzo più grande mercato di esportazione e la più estesa fonte di importazione negli Stati Uniti. Il “Libro bianco” conclude che i rapporti commerciali sino-americani rivestono carattere reciprocamente vantaggioso, smentendo l’affermazione di Donald Trump su un presunto “sfruttamento cinese” dell’America.
Uno “sfruttamento” che, secondo il Pentagono, sul piano militare si tradurrebbe in un “tentativo di cambiare a proprio favore l’ordine nella regione”, modernizzando le forze armate e conducendo “operazioni di influenza per soggiogare altri Stati”.
Al contrario, gli USA starebbero agendo “in modo completamente diverso”, tanto che Trump parla di una regione “libera e aperta”, in cui “assicurare la libertà di navigazione” e “sfidare le eccessive pretese marittime”: ovviamente cinesi. Così, Washington intende incoraggiare i governi che “agiscono correttamente” e i paesi i cui cittadini “godono dei diritti e delle libertà fondamentali”: il ritratto del “sicuro alleato” dell’Occidente, insomma.
Ora, osserva Sergej Kadomtsev sul mensile Vita internazionale, gli yankee si oppongono al “dominio di qualsiasi potenza nella regione indo-pacifica” e, per farlo, non vedono altra strada che il mantenimento del dominio militare USA. Washington è così tanto contraria alle relazioni di “dipendenza strategica“, che “invita gli alleati” a comprare armi americane, ai prezzi fissati dal Pentagono. E, in risposta all’iniziativa cinese Belt and Road, Washington non ha di meglio che adombrare fumosi “nuovi corridoi strategici”, legami militari coi vecchi alleati e parlare di un paio di dozzine di miliardi di dollari per stimolare “l’interazione produttiva” con nuovi partner.
Con tutto ciò, secondo il Pentagono, Pechino rimane la prima delle tre principali “minacce” alla sicurezza regionale: una “potenza revisionista“, dati “i suoi obiettivi espansionistici in campo politico, economico e militare“, che “cerca il confronto” e “l’egemonia regionale nel prossimo futuro”, mentre a lungo termine mira alla “supremazia globale”.
Al contrario, Washington, secondo il Pentagono (!), a lungo termine tenderebbe a relazioni “trasparenti e non aggressive” con la RPC: ma solo se Pechino si conformerà alle condizioni americane. Il Pentagono dice insomma col linguaggio da caserma, ciò che più mellifluamente The National Interest pretende da Pechino: che cioè modifichi il proprio comportamento, in modo che gli USA raggiungano un “livello più equo nell’arena commerciale”. E se Pechino vuole che “Washington smetta di cercare di impedire l’inevitabile ascesa della Cina, spetta però a Xi dimostrare che la Cina è disposta a modificare il proprio comportamento”, anche se “con la Cina quale potenza ascendente e l’America in graduale e inesorabile declino quale principale potenza mondiale, Xi ha pochi stimoli reali a cambiare” le regole del gioco.
In realtà la Cina, scrive Kadomtsev, sostiene l’ulteriore liberalizzazione degli scambi, sia nell’area indo-pacifica, che nel resto del mondo, sulla base dei principi di “mutuo vantaggio”, integrazione di tecnologie e culture. Un approccio simile a quello di Mosca che, nella medesima regione, sostiene la creazione di una zona di libero scambio: ragion per cui anche la Russia, nel documento del Pentagono, è definita “attore maligno rinascente”, quella seconda minaccia che cerca di recuperare ed espandere la propria influenza nella regione “in tutte le direzioni”.
Così, ci si dice preoccupati per lo sviluppo di una partnership globale russo-cinese in campo diplomatico, economico e militare, che potrebbe “sovvertire” l’ordine yankee. La terza minaccia per il Pentagono nella regione è ovviamente rappresentata dallo “stato canaglia” della Corea del Nord e si rimane fermi nell’esigere il suo completo disarmo nucleare, confermando la linea “dura e ultimativa” di Washington.
Sul fronte operativo, il documento, lasciata da parte ogni retorica “trasparente e non aggressiva“, parla di “mantenimento della pace con la forza e la deterrenza”, attraverso reparti interforze in grado di “conseguire una veloce vittoria in ogni conflitto”.
In maniera analoga a quanto perseguito in Europa, con approcci bilaterali “diversificati”, per l’area indo-pacifica il Pentagono suggerisce la formazione di coalizioni operative di due, tre o quattro paesi, per “rafforzare la cooperazione regionale”, trasformando gli esistenti legami militari, secondo il concetto alla moda di una “architettura di sicurezza di rete”. E, ancora una volta, per “cooperazione” si intende prima di tutto una “monetizzazione” dell’alleanza, che richiede da alleati e partner l’aumento degli stanziamenti per l’acquisto di armi americane, nonostante che negli ultimi tre anni le vendite di armamenti yankee ai paesi della regione siano già aumentate di oltre il 65%.
È in questa cornice che si può inquadrare anche “l’incidente” delle petroliere nel golfo di Oman. Ora, quando la situazione è ancora in movimento e la domanda ovvia che tutti si pongono è il perché di un attacco a navi giapponesi, in prossimità delle coste iraniane, durante i colloqui del premier giapponese con la leadership iraniana, ancora su iarex.ru, Stanislav Tarasov osserva come la missione di Shinzō Abe a Teheran fosse stata di fatto concordata con Trump.
La CNN ha così commentato l’affare: “Quello che è successo è relativamente chiaro: due petroliere sono state attaccate mentre stavano transitando su quella rotta marittima strategica. È tuttavia molto più difficile spiegare perché ciò sia accaduto, e chi ci sia dietro, in gran parte perché una mossa del genere non può certo giovare a nessuno degli attori della regione”.
E che Abe avesse coordinato con Trump le proposte da trasmettere alla leadership iraniana, lo conferma indirettamente il Times, scrivendo che esse potrebbero essere affinate al probabile incontro di Trump con il leader spirituale iraniano Ali Khamenei – che Tokyo sarebbe intenzionata a invitare al G-20 a Osaka, a fine mese – o col Presidente Hassan Rouhani.
In teoria, Teheran, pur ribadendo la contrarietà al negoziato con gli USA finché Washington non abbandonerà la politica delle sanzioni e tornerà all’accordo sul nucleare, avrebbe deciso comunque di non rinunciare al dialogo, con la mediazione di Abe. Ora insomma, allorché anche la Royal Navy britannica sta formando il 19° Reparto speciale di fanteria di marina da dislocare in Bahrein, si assiste a un avvitamento delle tensioni nel Golfo, con “alcune forze” che sono riuscite a contrastare il processo negoziale tra Washington e Teheran. Quali siano “alcune forze” lo si può intuire dal The Jerusalem Post del 17 giugno che, quasi a sollecitare un Trump indeciso, dà per pressoché acquisita la decisione USA di un “attacco limitato” a uno dei siti del programma nucleare iraniano.
A ogni buon conto, mentre Trump ha ringraziato Abe “per gli sforzi volti a stabilire un processo negoziale con l’Iran”, Rouhani, a scanso di sorprese, parlando con Putin a Dušanbe, ha affermato che “la necessità di interazione tra i paesi della regione e, in particolare, tra i nostri paesi, sta diventando ogni giorno più urgente”.
Così che, secondo Giovenale “a Delfi gli oracoli tacciono e la caligine che avvolge il futuro preme sul genere umano”.
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