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20/06/2019

I giochi internazionali di Kiev e le prospettive del Donbass

Tra il 17 e il 18 giugno, il Presidente dell’Ucraina golpista, Vladimir Zelenskij, è stato ricevuto a Parigi da Emmanuel Macron e a Berlino da Angela Merkel. In entrambe le occasioni ha toccato, naturalmente, anche il tema del Donbass; ma lo ha fatto seguendo già tutt’altra linea rispetto alle parole (che altro non erano) della campagna presidenziale: i martellamenti ucraini sulle città del Donbass, che non hanno fatto altro che intensificarsi una volta insediato il nuovo capo di stato – in particolare nelle ultime due settimane – stanno lì a dimostrare quale sia il “nuovo corso” del dopo-Porošenko.

Secondo l’esperto israeliano Solomon Mann, gli ambienti che contano in Francia e Germania hanno da tempo cominciato a mutare atteggiamento nei confronti della Russia – in particolare, sul tema delle sanzioni, che tocca i portafogli di tanti, anche a dispetto delle attestazioni di Federica Mogherini, secondo cui il settore agro-alimentare UE si sarebbe già risollevato dalle contro-sanzioni russe introdotte nel 2014 – e dunque hanno accolto Zelenskij “semplicemente per cortesia” e hanno “ascoltato con pazienza” le sue insistenze sulle sanzioni anti-russe, “fingendo attenzione”, ma comportandosi di fatto “come se Zelenskij non stesse parlando, ma solo emettendo un qualche rumore di fondo”. Tanto che non è stato forse per il caldo che la Merkel è finita in crisi di disidratazione, ma non ha mancato di far pesare, già nelle prime battute della conferenza stampa, i cinquecento milioni investiti dalla Germania in Ucraina dal 2014.

Ad ogni modo, pare che il neo Presidente ucraino abbia accennato alla possibilità di anticipare l’incontro del cosiddetto “formato normanno” sul Donbass – Macron, Merkel, Putin, Zelenskij – inizialmente ipotizzato per dopo le elezioni parlamentari anticipate del 21 luglio. Quanto beneficio tale formato e, in generale, gli accordi di Minsk (mai rispettati dall’Ucraina) abbiano sinora portato alle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk, non è necessario ricordarlo: lo testimonia a sufficienza il bombardamento notturno di Donetsk del 16 giugno, che per intensità è stato pari a quelli registrati nei primi mesi di guerra e ha smascherato l’avanzata delle forze ucraine nella cosiddetta “zona grigia” smilitarizzata.

Dopo i colpi di obice e mortai pesanti di quella notte sulla periferia di Donetsk (ex-aeroporto e rione di Spartak), le truppe ucraine non hanno smesso di colpire il Donbass: Sakhanka, Bezymennoe, Kominternovo, Deržinskoe, Jasinovataja, Trudovskoe, Staromikhajlovka, Krasnoarmejskoe sono le aree più bersagliate, che hanno subito gravi danni soprattutto in infrastrutture e obiettivi civili: condutture del gas, acquedotti e abitazioni, come si è ripetuto poi anche nella prima mattinata del 19 giugno.

L’insufficienza, se così si può dire, del “formato normanno”, è che esclude l’attore chiave della situazione ucraina, che risiede geograficamente al di là dell’Oceano, ma che è politicamente e militarmente ben insediato sulla linea del fronte. L’inclusione di Washington ai colloqui di Minsk, pretesa con tanta insistenza dall’ex Presidente golpista Porošenko, non avrebbe fatto altro che sanzionare anche formalmente (ed è dunque sacrosanto che finora tale inclusione sia sempre stata respinta) un dato di fatto sotto gli occhi di tutti.

Non a caso, osserva colonelcassad, il rappresentante speciale USA per l’Ucraina, Kurt Volker (che in questi giorni ha annunciato lo stanziamento nel 2020 di ulteriori 200 milioni di dollari per l’esercito di Kiev: un totale di 1,5 miliardi dal 2014 – cifre ufficiali del Pentagono), insiste su una interpretazione yankee degli accordi di Minsk, che implica la resa totale della Russia, in primo luogo su Donbass e Crimea: un copione mandato a memoria da Porošenko prima e da Zelenskij ora. L’uno e l’altro hanno ribadito che Kiev non condurrà colloqui diretti con DNR e LNR, previsti invece dagli accordi di Minsk: ciò significherebbe infatti riconoscere che l’attacco al Donbass riveste carattere interno ucraino e non è “conseguenza dell’aggressione russa”, come sostengono Kiev e Washington.

L’insistenza sul coinvolgimento americano nei colloqui con Mosca, sottintende appunto la narrazione della “aggressione russa all’Ucraina”: perciò, il Cremlino vi si è sinora opposto e il contatto russo-americano sulla questione del Donbass è limitato agli incontri dei rispettivi rappresentanti presidenziali: Vladislav Surkov (sostituito ora da Mikhail Babič) per Mosca e Kurt Volker per gli USA. Il quale Volker agisce nella doppia veste di inviato del Presidente e di commesso viaggiatore del complesso militare-industriale yankee; come in ogni altra parte del mondo, anche per l’Ucraina, i dollari stanziati da Washington devono essere spesi per comprare armi americane e Volker ha buttato lì che Kiev potrebbe cominciare con l’acquistare sistemi anti-cecchino e razzi anticarro “Javelin”, per passare poi anche ai complessi missilistici.

Di fatto, il “formato normanno” è sponsorizzato soprattutto da Francia e Germania che, tramite esso, anche in questo campo intendono dimostrare di esser svincolati da Washington. Per quanto riguarda Zelenskij, il vertice potrebbe costituire un’opportunità per provare di quanto abbia intenzione di allontanarsi dalla strada di Porošenko, di completa dipendenza da Washington; per ora, i segnali sono tutt’altro che positivi: mentre i bombardamenti su città e villaggi del Donbass si intensificano, anche le parole dell’ex showman seguono ben altra retorica rispetto a due mesi fa.

Perse anche quelle poche illusioni che avevano accompagnato la campagna presidenziale ucraina, gli abitanti del Donbass, nel migliore dei casi, parlano di forze armate (e, soprattutto, battaglioni neonazisti) fuori del controllo presidenziale e, più realisticamente, riconoscendo che Zelenskij non è che una brutta copia di Porošenko, abbandonano ogni speranza di pace. Tanto più che le voci su un presunto ordine di cessate il fuoco impartito da Kiev alle proprie truppe è stato bellamente smentito dai comandanti al fronte; si infittiscono anzi i casi di reparti dell’esercito che sparano sui battaglioni (e viceversa) per avere così il pretesto di incolparne le milizie e aprire il fuoco.

D’altra parte, accade che, sulla scia del consenso di USA, UE e Russia al nuovo governo moldavo, di alcune mezze frasi di John Bolton e di accenni fatti dal vice Ministro degli esteri russo Grigorij Karasin, alcuni osservatori non nascondono il miraggio che un simile accordo a tre possa darsi anche per l’Ucraina. In questo senso, osserva ritmeurasia.org, la stessa intensificazione dei bombardamenti sul Donbass, l’accentuarsi della retorica anti-russa di Zelenskij, il suo persistere nel rifiuto di colloqui diretti con LNR-DNR, la semplificazione nel concedere la cittadinanza ucraina ai mercenari stranieri, potrebbe celare un possibile gioco al rialzo in vista del probabile incontro Trump-Putin.

Incontro che potrebbe preludere a una mossa a sorpresa yankee: “nelle condizioni in cui gli USA” nota ancora, forse con troppo ottimismo, ritmeurasia.org, “sono costretti a dire addio all’egemonia mondiale, Trump potrebbe sacrificare l’Ucraina, incolpando del fallimento della politica estera in quest’area il Partito Democratico, diretto organizzatore del golpe nel 2014. La cosa gli tornerebbe anche molto utile in vista delle elezioni presidenziali USA”.

Su questa linea, Fëdor Papajani osserva su iarex.ru che il costante, ma oltremodo discreto (per minimizzare le sanzioni) aiuto sociale, materiale, diplomatico, che Mosca accorda da cinque anni al Donbass, estesosi ora alla concessione del passaporto russo agli abitanti di L-DNR, tra gli altri obiettivi ha anche quello di guadagnare tempo per completare il perfezionamento del proprio potenziale militare, in attesa che i crescenti problemi interni degli Stati Uniti raggiungano un punto talmente critico che Washington avrà ben altro di cui occuparsi che non di Ucraina e Donbass, e ancora guadagnare tempo per una probabile auto-liquidazione dell’Ucraina, che sta procedendo a ritmo accelerato. Da qui, la tattica degli accordi di Minsk, messa a punto da Mosca, che ha permesso, se non di risolvere, almeno congelare temporaneamente il conflitto.

Purtroppo per gli abitanti del Donbass, guerra e occupazione ucraina di gran parte del territorio, hanno reciso le reti economiche e tecnologiche della regione. La difficile situazione finanziaria dei cittadini (bassi salari e pensioni), una forte riduzione delle imprese e, di conseguenza, di posti di lavoro, bombardamenti costanti e il non riconoscimento delle Repubbliche, con la conseguente indeterminatezza di prospettive, cominciano a farsi sentire.

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