“Da più di tre lustri, lo Jacob agisce a casaccio. Seguendo un rigido piano quinquennale”
L’abbiamo letto e riletto questo libro. E’ un testo che si presenta
al limite dell’ambiguo, pericoloso, pieno di stonature. Ci sono
forzature, approssimazioni, letture di pancia e istintive, ma più si
legge e più ci si rende conto che è frutto di un’urgenza e di una
necessità assolutamente positive: la sinistra di classe, i compagni,
devono fare i conti con la loro storia, con la storia delle loro scelte,
con l’egemonia di pensiero dominante in cui loro stessi si sono fatti
coinvolgere, che hanno tollerato o che non sono stati in grado di
decostruire. E per essere decostruita, le belle e sagge parole non bastano, forse bisogna andarci giù di machete, bisogna farsi dire ma cosa diavolo state dicendo!,
bisogna affondare nell’eresia e costringere tutti quelli che lottano
per cambiare lo stato di cose presenti a fare i conti con le macerie
sotto cui (ci) siamo sotterrati. Macerie e cemento sono, e così non
potrebbe essere altrimenti, il campo in cui si deve muovere la sinistra
di classe per ricominciare ad esistere. Lo cerca di fare il laboratorio
politico Jacob di Foggia, nato nel 2003, che firma questo lavoro nel
quale si ripercorrono gli anni della sua esistenza fino ad oggi,
intrecciando vicende locali con appuntamenti nazionali, saltando dalle
vicende del Foggia calcio alla nascita del Csoa Scuria nel 2014, tra
citazioni intellettuali, botte con i fascisti e tradizioni popolari.
La lama del machete dello Jacob, viene rivendicata con orgoglio, non è
composta di lavoro accademico ma di militanza politica, di botte allo
stadio e per strada con fascisti e polizia, di confronti/scontri con il
proletariato di Foggia e le sue contraddizioni, senza inutili
romanticismi ma con la consapevolezza che nasce dal fatto di essere
parte di quel proletariato, di esserci nati e di viverci
quotidianamente. E allora nel libro si comincia ad analizzare/attaccare
in maniera dissacrante quello che è il nostro intorno politico e il
nostro immaginario militante, o meglio quello che dovrebbe essere il
nostro immaginario e quello che invece è diventato.
Le provocazioni sono
spiazzanti, fatte volontariamente per suscitare indignazione in una
sinistra ormai incapace di immaginare se stessa fuori del recinto
democratico e istituzionale, chiusa nei suoi stereotipi e nelle sue
vuote ritualità, che non riesce a comunicare più a nessuno, che non
riesce a comprendere più la realtà che la circonda.
Si potrebbe dire che
il problema principale che viene affrontato sia quello dell’egemonia
culturale, ma non è solo questo. C’è qualcosa di più profondo, che ha a
che fare con la nostra stessa materialità di militanti politici, con i
nostri gesti, con la nostra stessa forma. E allora sotto con il primo
attacco diretto: aboliamo la festa del 25 aprile, smontiamo il mito
della Resistenza e del buon partigiano costruito ad arte dal sistema di
potere e dalla sinistra riformista, basta con questa narrazione tossica
della Resistenza unitaria, Resistenza che è, così, estremamente depotenziata nelle sue radicali intenzioni ed appiattita sull’adagio della liberazione nazionale, i cui valori, ridotti ai minimi termini, diventano patrimonio comune e condiviso di tutti i cittadini italiani in quanto tali (a meno che non si appartenga ad una trascurabile minoranza di fascisti irriducibili), a prescindere dalle loro differenze reciproche.
Ed è qui che il terreno può diventare pericoloso, poiché si rischia,
pur nella giusta rivendicazione di alterità, di rendere ancora più
difficile il lavoro di immaginario e di memoria, tematiche che sono
sempre state care al collettivo Militant. Perché se può essere vero che i
nostri modelli artefatti sono la causa dei cedimenti. Perché basta un
Pansa, una foiba, un eccidio, uno stupro, per far vacillare le
convinzioni. E spingere alla dissociazione. A rivendicare un patrimonio
parziale, quasi sempre inventato di sana pianta. I partigiani reali, in
questa corsa all’esempio edificante, sono diventati quasi un peso. E il
cavallo di battaglia di ogni revisionismo politicamente orientato, sostenere che esecuzioni
sommarie di prigionieri, espropri arbitrari di beni ai civili, stupri
di donne, esiguità del numero dei renitenti rispetto a quello degli
arruolati nella Guardia Nazionale Repubblicana, odio viscerale per i
repubblichini (dopo tutto “fratelli d’Italia” anche loro) e vilipendio
dei loro cadaveri, refrattarietà alla disciplina, rivalità e scontri tra
bande di diversa estrazione politica e tra i membri della stessa banda,
difesa esclusiva della propria “roba” (intesa, a seconda dei casi, come
merce, terreno, famiglia o comunità di appartenenza) a dispetto di ogni
ideale più elevato e di qualsiasi obiettivo comune, rancori personali e
vendette individuali, ostentazione della violenza e paura della morte,
delazioni, fughe, tradimenti, imboscamenti, sono, componenti essenziali (della Resistenza), senza le quali non sarebbe stata vincente e, forse, mai esistita,
rischia forse di spostare il problema che si voleva affrontare senza
risolverlo, quello cioè di tracciare una linea netta tra “noi” e “loro”.
Tra ilari momenti, come quando si ricorda la nascita della Giornata del ricordo nel 2004, dove un
compagno del Prc, in uno dei futili dibattiti di mezza sera con cui si
ammazzava il tempo ai tempi del “Movimento dei movimenti”, una volta
ebbe modo di dirci: “La differenza tra noi è che per voi le foibe sono
mezze vuote, per noi sono mezze piene”. Non era l’unica differenza, a
voler essere pignoli. Ma si voglia prendere come emblematica
l’argomentazione: che la penitente sinistra istituzionale fosse sul tema
rossa di vergogna in viso già al volgere del Millennio, e più
amare riflessioni sulla permeabilità della sinistra di classe a
linguaggi e, di conseguenza, a riflessioni che non gli appartengono,
come del resto, pensiamoci: quante volte abbiamo parlato di
“rivoluzione ungherese” o usato la locuzione “primavera di Praga”? E
quante volte abbiamo rilanciato la formula “conflitto
israelo-palestinese”? Quante volte abbiamo detto “guerra del Kosovo”? E
quante altre abbiamo parlato di “disordini religiosi” nell’Irlanda del
Nord? Non ammettiamo che quella di Budapest del ‘56 fu una
“controrivoluzione”, che quella dei palestinesi è una lotta di
liberazione, che in Kosovo non c’è stata una guerra ma una aggressione
della Nato ad uno stato sovrano e che la religione non c’entra niente
con le cause della guerra civile irlandese. Perché ammetterlo
significherebbe rompere la pace lessicale e mostrarsi schierati ed
isolati al contempo, le provocazioni si susseguono, spiazzanti, e
continua anche l’analisi del lavoro politico e delle lotte dello Jacob
durante gli anni, in un intreccio di territorialità e di feroce
sarcasmo, di battute al limite del volgare e di riferimenti dotti per
arrivare alla chiusa finale, che ben racchiude il sincretismo pop
comunista che i compagni dello Jacob fanno proprio: Da più di tre lustri, lo Jacob agisce a casaccio. Seguendo un rigido piano quinquennale.
Da prendere con le molle ma da leggere con attenzione.
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