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26/06/2019

Lavoro: la dignità perduta

Il 29 maggio scorso i sindacati confederali e la Federmaco (la federazione composta dai datori di lavoro del settore del cemento) hanno siglato il nuovo contratto nazionale del settore del cemento scaduto il 31 dicembre 2018 e riguardante circa 8.500 addetti tra lavoratori del cemento e lavoratori della calce e del gesso. Il rilievo della notizia risiede nel fatto che il contratto è stato stipulato in deroga alle disposizioni del Decreto Dignità, ossia stabilendo delle ‘regole’ diverse da quelle stabilite dal decreto.

Nonostante sia già in atto un deprecabile proliferare di contratti nazionali e aziendali che hanno in vario modo derogato alla “stretta” sui contratti a termine operata dal Decreto Dignità, la ‘deviazione’ occorsa nel settore del cemento ha risvolti particolarmente pericolosi. In essa traspare il non certo nuovo, ma sempre più esplicito e sconcertante avvicinamento di CGIL, CISL e UIL alle posizioni degli industriali e, più in generale, del mondo padronale. Come vedremo, questa situazione potrebbe essere peggiorata sia da una proposta legislativa di marca leghista mirante ad attaccare il Decreto Dignità, sia dalla contrarietà dei confederali verso l’introduzione di un salario minimo.

Ma veniamo alla parte legislativa. Il Decreto Dignità stabilisce una durata massima del contratto a tempo determinato pari a 24 mesi, a patto che sia indicata almeno una causale tra:

- esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori;

- esigenze connesse a incrementi temporanei, non programmabili e significativi, dell’attività ordinaria.

Il decreto, inoltre, consente ai CCNL di estendere la durata massima dei contratti a tempo determinato. Questa possibilità, tuttavia, consente ai contratti collettivi nazionali di derogare solo ed esclusivamente sui limiti di durata dei contratti a tempo determinato. Non viene consentito, infatti, ai contratti collettivi nazionali di sovrapporsi alla legge su altre questioni, quali ad esempio l’indicazione di causali nuove e, addirittura, alternative rispetto a quelle stabilite dalla legge.

Nel caso del CCNL del cemento, in deroga al Decreto Dignità, la durata massima dei contratti a tempo determinato è fissata a 36 mesi (a condizione che siano stati trasformati a tempo indeterminato il 50% dei lavoratori assunti a tempo determinato negli ultimi 36 mesi nell’unità produttiva interessata). Il CCNL, tuttavia, inserisce un periodo che desta perplessità: “In aggiunta alle causali sopra indicate”, ossia i precedenti punti a) e b), “l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro è consentita nelle seguenti ipotesi: 1) per punte di più intensa attività dovute a particolari richieste di mercato, anche stagionali, o per particolari commesse; 2) per fasi di avvio di nuove attività, intendendo per tali anche l’avvio di nuovi impianti e/o nuove linee/sistemi di produzione definite e predeterminate nel tempo.”

Come interpretare queste parole? Sebbene il punto 1) possa essere letto come una specificazione della causale di cui alla lettera b), una possibile conferma dell’incompatibilità delle nuove causali con quelle esistenti risiede nella natura stessa di una delle due nuove causali aggiunte, nello specifico il punto 2). In esso sono indicate come giustificazioni le fasi di avvio di nuove attività, nuovi impianti e nuove linee di produzione definite e predeterminate nel tempo. Una causale giustificativa simile appare particolarmente in contrasto con il carattere di temporaneità e di non programmabilità dell’attività ordinaria propria delle causali stabilite dal Decreto Dignità le quali sono esplicitamente riferite a esigenze temporanee, oggettive e non programmabili dell’attività produttiva (ad esempio, non può essere considerata valida l’assunzione di lavoratori a tempo determinato per esigenze temporanee ma programmabili nel tempo, quali, ad esempio, le maggiori vendite dovute al periodo dei saldi o di maggior affluenza dei clienti nei periodi di ferie).

L’avvio di nuovi impianti e di nuove linee di produzione appare, viceversa, un’attività stabilita a priori e programmata dalle imprese le quali si aspettano, ragionevolmente, un incremento della produzione anche su periodi di tempo mediamente lunghi (altrimenti non si comprenderebbe la convenienza, per la singola impresa, alla costituzione di un nuovo impianto). Dunque, qualora si verificasse il punto 2) non potrebbero verificarsi né la lettera a), né la lettera b).

Qualora l’impresa decidesse di avviare una nuova linea di produzione o di costituire nuovi impianti, il lavoratore potrebbe essere assunto a tempo determinato sulla base di motivazioni che con le esigenze temporanee e oggettive sembrano avere poco a vedere, quasi a certificare che, di fatto, nello sfruttamento l’imprenditoria trova la sua risorsa fondante per l’espansione della produzione.

Le imprese del settore del cemento, grazie a questa causale, potrebbero allora continuare a disporre di forza lavoro a tempo determinato e poco tutelata. E’ vero sì che un lavoratore assunto a tempo determinato con una motivazione illegittima si vedrebbe trasformato il rapporto di lavoro, qualora si rivolgesse a un giudice, a tempo indeterminato. Tuttavia, affrontare una causa di lavoro richiede tempo e denaro, cose che i lavoratori precari non hanno e che, per di più, sono in grado di intimorirlo.

Il CCNL del cemento prevede, inoltre, un incremento dei minimi tabellari per il triennio 2019-2021 in favore di tutte le aree professionali del comparto, incremento che, secondo quanto riportato dai sindacati, sarebbe più elevato dell’inflazione prevista dall’Istat (presumibilmente nel medesimo triennio). Il contratto siglato, tuttavia, riporta esclusivamente che gli incrementi “sono comprensivi del recupero dello scostamento tra inflazione prevista e quella consuntivata relativamente agli anni 2016, 2017 e 2018”.

I sindacati confederali, da parte loro, hanno esclusivamente sottolineato l’incremento dei minimi tabellari frutto dell’accordo. In aggiunta, il segretario nazionale della Fillea Cgil, Gianni Fiorucci, ha sottolineato come “i contratti continuano ad essere la massima autorità salariale. A dispetto di chi sostiene che c’è bisogno di un salario minimo legale, questo contratto mostra che la contrattazione e l’organizzazione del lavoro sono le vere risposte alla ripresa della dinamica salariale”. La ricattatoria proposta di scambio tra incrementi salariali e peggioramenti delle condizioni lavorative, volta a giustificare e preservare il primato sindacale sulla contrattazione, ci appare come particolarmente esemplificativa dell’attuale piega presa dai sindacati confederali. Ci si aspetterebbe che il sindacato si prodighi non solo affinché le causali siano rispettate, ma che sostenga con vigore l’introduzione delle motivazioni di un’assunzione a termine anche per i primi 12 mesi di contratto a termine. Ciò nell’ottica di ribadire con forza che il contratto a tempo indeterminato deve essere il rapporto di assunzione prevalente, se non l’unico. Viceversa, insieme a Confindustria, i sindacati concepiscono le causali come un ostacolo e un freno alla stabilizzazione o al rinnovo dei contratti in quanto strumenti di difficile applicazione e forieri di possibili contenziosi. Quale la soluzione da parte sindacale? Consentire, tramite un intervento legislativo, alla contrattazione di apporre nuove causali, aggiuntive rispetto a quelle previste dalla legge.

La Lega non esita ad inserirsi subdolamente in questo pernicioso quadro. E’ stato infatti annunciato che a fine Giugno verrà incardinata in Commissione Lavoro alla Camera dei Deputati una proposta di legge (il cui testo non è ancora disponibile) elaborata da Elena Murelli, deputata della Lega e prima firmataria della proposta. L’idea di fondo è la seguente: poiché le causali introdotte dal Decreto Dignità ‘ingessano’ troppo le imprese, la proposta di legge mira a consentire alla contrattazione collettiva (a livello nazionale, o anche aziendale o territoriale) di avvalersi di causali aggiuntive per ricorrere a un rapporto a tempo determinato. L’ulteriore motivazione per l’intervento risiede nel tentativo di ‘normalizzare’ il continuo ricorso delle imprese, a partire dall’entrata in vigore del Decreto Dignità, a deroghe e ad accordi aziendali e territoriali per bypassare le causali.

Il parallelismo tra la proposta leghista e il posizionamento dei sindacati confederali sul tema sembra allora essere piuttosto evidente. L’ideologia che muove i sindacati confederali si manifesta in tutta la sua evidenza nel momento in cui questi sposano il pensiero unico liberista, che vede in quei minimi strumenti di tutela per i lavoratori concessi dalla legge come degli orpelli di cui si può e si deve fare a meno. Una posizione che oramai non si limita a negare il conflitto di classe, bensì lo camuffa, annunciando interventi legislativi con lo scopo di venire incontro alle esigenze di sfruttamento degli industriali come favorevoli ai lavoratori. Si sbandierano maggiori tutele, si firmano precarietà e remunerazioni da fame.

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