di Walter Catalano
Game of Thrones è ormai assurta, nel bene e nel male, all’Olimpo delle serie epocali – con Breaking Bad, Boardwalk Empire, The Sopranos, Mad Men, e poche altre. Forse meno perfetta di quelle ricordate, eppure ancora più amata e odiata, condivide con Lost, e – con le dovute differenze – Twin Peaks, i
picchi emotivi del disprezzo o dell’esaltazione da parte del pubblico.
Il marketing e il pompaggio mediatico che hanno accompagnato la sua
storia sono stati, crescendo nel corso del tempo, abnormi: gadget,
giochi, fumetti, canzoni, documentari, quiz televisivi, perfino
bottiglie di whisky pregiati personalizzati dalla HBO con le etichette
delle varie casate di Westeros, e quant’altro.
Non passa giorno che la stampa e soprattutto internet non ci
martellino con le immagini dei principali protagonisti (in larga misura
attori giovanissimi e precedentemente sconosciuti, balzati da otto anni a
questa parte alla ribalta internazionale) e con i gossip sui
nuovi divi: John Snow (Kit Harington) si è sposato con Ygritte (Rose
Leslie) e subito dopo la fine dello show è finito d’urgenza in rehab per depressione e alcolismo; Sansa (Sophie Turner), si è sposata anche lei ma con il frontman di una band teen pop,
ha girato per New York indossando pantofole di pelo e si è lanciata
nella sua ultima interpretazione – una di quelle schifezze blockbuster
ispirate ai fumetti Marvel o Dc, è lo stesso, che proprio non sopporto –
X Men: Dark Phoenix; Danaerys Targaryen (Emilia Clarke) è
sopravvissuta, nel corso delle varie stagioni dello show, a due
aneurismi cerebrali e ha istituito una fondazione per la raccolta di
fondi in favore delle vittime di queste patologie; Tyrion Lannister
(Peter Dinklage), l’acondroplasico più sexy del mondo, è stato il
frontman di una band punk che si chiamava Whizzy: la sua cicatrice è
vera e se l’’è fatta durante un concerto; ecc. ecc.
Sempre su internet anche le mitologie, le urban legends e le
voci contrastanti sull’epopea si sono avvicendate e sovrapposte: i fan
scontenti del finale insorgono e fanno una petizione perché l’ottava
stagione della serie venga girata da capo; il prequel in lavorazione si
intitolerà The Long Night e la protagonista sarà Naomi Watts; il prequel della serie si intitolerà Bloodmoon, le riprese sono iniziate a Belfast, si svolgerà cinquemila anni prima dell’epoca di Game of Thrones; George R. R. Martin ha appena finito i due ultimi libri della saga; George R. R. Martin non ha finito neanche The Winds of Winter,
ma lo dovrebbe finire entro il 2020 e ci metterà anche gli unicorni; i
finali dei libri saranno completamente diversi da quello della serie; i
finali dei libri non saranno poi così diversi da quello della serie,
ecc. ecc. Numerosi psicologi hanno perfino compilato una diagnosi
psichiatrica per ognuno dei personaggi o per ognuna delle principali
casate di Westeros: così Casa Stark sarebbe afflitta da sindrome
maniaco-depressiva; Casa Lannister da disturbo narcisistico della
personalità; Casa Baratheon da disturbo borderline per il ramo di Robert
e disturbo ossessivo compulsivo per quello di Stannis; Casa Targaryen
da disturbo bipolare di tipo I; e così via. Insomma mai una serie TV ha
così capillarmente specchiato la psicopatologia della vita quotidiana
dell’Occidente contemporaneo.
Il Trono di Spade (Game of Thrones) era stata avviata alla
gloria dello schermo da David Benioff e D.B. Weiss, nel 2011, per il
canale via cavo HBO, ispirandosi al ciclo narrativo di Le Cronache del ghiaccio e del fuoco (A Song of Ice and Fire) dello statunitense George R. R. Martin, saga composta dai romanzi
A Game of Thrones (1996), A Clash of Kings (1999), A Storm of Swords
(2000), A Feast for Crows (2005), A Dance with Dragons (2011), e dagli ancora inediti The Winds of Winter e A Dream of Spring. La
serie, dai molteplici e complessi personaggi vagamente ispirati alle
figure che si avvicendarono sulla scena storica della Guerra delle due
rose inglese, è ambientata in un mondo immaginario costituito dal
Continente Occidentale (Westeros) e da quello Orientale (Essos). Il
centro più grande e civilizzato di Westeros è la città capitale Approdo
del Re (Kingslanding) dove si trova il Trono di Spade dei Sette Regni,
un sedile di ferro fatto di spade saldate e intrecciate fra loro, trono
scomodo e pericoloso come il potere. La lotta acerrima per la conquista
dell’autorità regale porta le più potenti e nobili famiglie del
Continente Occidentale a scontrarsi o allearsi tra loro in un tortuoso
gioco di potere, che coinvolge anche l’ultima discendente della dinastia
regnante deposta, l’esiliata e giovanissima Daenerys Targaryen, nelle
cui vene scorre sangue di drago e che potrà contare su draghi, oltre che
uomini, al suo servizio. Gli intrighi politici, economici e religiosi
dei nobili lasciano la popolazione nella povertà e nel degrado, mentre
il mondo viene minacciato dall’arrivo dell’inverno – in questo mondo le
stagioni possono durare anni – un inverno lunghissimo che preannuncia il
risveglio di creature leggendarie e dimenticate, favorendo l’emergere
di forze oscure e magiche. I personaggi principali sono per la maggior
parte membri di casate nobiliari dei Sette Regni: la nobile Casa Stark
comprende gli uomini del Nord, che proteggono i Sette Regni dalle
minacce celate oltre la Barriera, ovvero i Bruti (Wildlings), un bellicoso popolo nordico senza legge e gli Estranei (White Walkers),
leggendarie creature sovrannaturali e non umane. Della nobile Casa
Baratheon fa parte il re sul Trono di Spade, ovvero il sovrano di tutti i
Sette Regni, detestato dalla moglie fedifraga e incestuosa e dai due
fratelli minori che ambiranno alla successione dopo la morte improvvisa
del sovrano (in circostanze, inutile precisarlo, assai poco limpide). La
nobile Casa Lannister è formata da uomini ricchissimi e influenti,
imparentati con i Baratheon tramite il poco felice matrimonio dinastico.
La nobile Casa Targaryen, un tempo regnante, è invece caduta in rovina
dopo che il suo ultimo re sul Trono di Spade è stato spodestato dai
Baratheon. Queste e molte altre casate prestano alternativamente
giuramento di fedeltà fra loro tramite matrimoni e compromessi, spesso
ricorrendo a tradimenti e omicidi, in una continua e spietata lotta per
il potere.
In estrema sintesi la struttura di base iniziale della trasposizione
filmica della saga, sostanzialmente fedele ai romanzi di Martin, si era
articolata intorno a queste premesse. Lo show rispecchiava i libri anche
per lo spessore conferito ai personaggi, complessi e psicologicamente
convincenti, per la trama e i dialoghi efficaci e per l’alta qualità
della produzione. Il ricorso abbondante al nudo e le numerose scene di
violenza fisica e sessuale, elemento saliente nelle prime stagioni,
avevano attirato varie critiche negative (c’è da puntualizzare però a
tal proposito, che questo tipo di scene – caratteristica peculiare a
quasi tutte le produzioni HBO – per quanto talvolta forti, non erano mai
state troppo insistite né gratuite, ma sempre e comunque funzionali
alla trama) e pertanto, di stagione in stagione, si è preferito ridurne
la frequenza e accorciarle drasticamente, fino quasi a farle scomparire.
Una normalizzazione compiacente, una semplificazione riduttiva e una
standardizzazione imbonitoria che è andata progressivamente prevalendo.
Dalla quarta stagione in poi la serie ha cominciato a discostarsi con
sempre maggiore decisione dalla versione scritta e Martin ha cessato di
collaborare direttamente alla sceneggiatura pur dichiarandosi in genere
soddisfatto dall’impostazione data alla vicenda (che presumibilmente
dovrebbe rimandare, almeno a grandi linee, ai volumi non ancora
terminati della saga). Come per il ciclo di romanzi anche per la serie
filmata il centro dell’attenzione della vicenda voleva essere
soprattutto politico e psicologico, con personaggi ricchi di sfumature e
che si evolvevano nel corso della trama, senza trascurare ampie e
suggestive aperture al magico, al soprannaturale e all’horror e massicce
digressioni di pura azione, con epiche battaglie, sanguinosi assedi e
feroci duelli. Il fragile equilibrio tra tutti questi elementi
narrativi, il carisma degli attori e il sempre più ricco budget a
disposizione, hanno reso questa serie la regina degli schermi
internazionali: un fantasy adulto e sofisticato che metteva d’accordo
pubblico e critica. Ma, dalla sesta stagione in avanti, qualcosa si è
inceppato: i risultati hanno cominciato ad essere discontinui, i
personaggi meno coerenti, le situazioni meno credibili, gli snodi più
scontati. Volendo accontentare tutti si è finito per non accontentare,
fino in fondo, nessuno.
Fra i molti articoli, in genere insulsi, che la stampa ha dedicato al
programma, almeno uno centrava il problema individuando nell’approccio
sociologico alle vicende e ai personaggi la caratteristica distintiva
delle opere di Martin: era l’aderenza iniziale a questo aspetto a porre
la serie fuori dai canoni prevedibili in cui invece l’approccio
psicologico, tipicamente hollywoodiano, di Benioff&Weiss lasciati a
sé stessi, l’ha fatta ricadere. La questione del controllo di Martin sul
progetto e della divaricazione sempre più forte fra opera scritta e
opera filmata, l’una da sempre più complessa, l’altra sempre più ridotta
ai minimi termini, è culminata negli attesi e temuti explicit
della stagione finale, l’ottava, in cui complessità e sociologia hanno
ormai definitivamente abdicato nei confronti di semplificazione e
psicologia.
Proprio la scelta della via più breve, la frettolosità della
risoluzione improvvisa di certi conflitti portati avanti per stagioni
intere, ha comprensibilmente deluso e infastidito molti spettatori. Il Night King e i suoi White Walkers
non possono essere sgominati solo dalla banalissima pugnalata – seppure
di acciaio valyriano – di Arya Stark; Danaerys non può impazzire
improvvisamente e rinnegare in un sol colpo tutti i suoi ideali
umanitari di liberatrice di schiavi sterminando col fuoco gli innocenti
cittadini di Kingslanding; in più se le bastava un drago per distruggere
la capitale, non avrebbe avuto bisogno di sprecare anni a radunare un
inutile esercito; e i draghi poi, talvolta possono essere abbattuti come
fagiani con un singolo, semplice freccione, talaltra invece sono
invincibili e indifferenti al tiro di centinaia di balestre, secondo le
convenienze; e non parliamo di Jon Snow, novello Targaryen, che sembra
più morto di prima che lo resuscitassero da quando si è preso una cotta
per la bella zia e si sveglia solo per vibrarle una pugnalata al cuore, a
tradimento, mentre la bacia e chiude la questione nel modo più ovvio;
quanto a Tyrion poi, non è più quello di una volta, ha perso sense of humour, cinismo
e perspicacia machiavellica e, dopo essere passato alla castità, manca
solo che diventi perfino astemio. Troppo affrettato l’arrostimento di
Varys, l’eunuco cospiratore; troppo stereotipato il ritorno di Jaime
Lannister tra le braccia di Cersei, la sorella-amante, per morire
insieme sotto le macerie del palazzo reale distrutto, ma peggio ancora
il precedente duello sulla riva del mare dove – ma guarda la
combinazione – Jaime vede riemergere dall’appena avvenuto naufragio
dell’intera sua flotta, proprio il rivale Euron Greyjoy che minaccia di
sbudellarlo, quasi ci riesce, ma finisce invece immancabilmente
sbudellato. Tutte le scorciatoie più trite sono state percorse
spudoratamente dal duo di sceneggiatori che ora si appresta, secondo
voci recenti, a firmare i prossimi episodi di Star Wars: in effetti la banalità mainstream di Star Wars è il naturale approdo di una scrittura così convenzionale.
Secondo i teorici del fantasy possiamo distinguere tra un high fantasy,
stretto alla grande retorica classica dei poemi epici e cavallereschi:
la tradizione letteraria “alta”, che s’identifica soprattutto con
Tolkien, l’eroismo, la serietà o seriosità, il manicheismo di valori
morali ben determinati, di una visione etica del mondo, ecc. e un low fantasy,
più moderno, meno legato alla letteratura classica, antieroico e
amorale, talvolta parodistico e irriverente: il mondo degli eroi pulp. Il Conan di Howard ci rientra solo per alcuni aspetti, ma lo Sword&Sorcery di Fritz Leiber e il suo ciclo del Mondo di Nehwon e della città di Lankhmar,
con le sue simpatiche canaglie Fafhrd e Gray Mouser, perennemente a
caccia d’oro e di disponibili donzelle, ne rappresenta l’esempio più
perfetto. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone il ciclo Queste oscure materie di Philip Pullman – composto dalla trilogia La bussola d’oro, Il cannocchiale d’ambra, La lama sottile – che rifiuta però il sarcasmo e l’ironia e rimanda invece a riferimenti letterari colti – la nekya dell’epica antica, la Commedia dantesca, il Paradise Lost di Milton – per sferrare un attacco filosofico contro la visione mistica e religiosa dell’high fantasy – rappresentata in particolare dall’aborrito ciclo delle Cronache di Narnia di C.S. Lewis – e costruire uno straordinario Bildungsroman metafisico
in nome dell’ateismo, del panteismo, e di un luciferismo vittorioso che
detronizzerà infine il despota divino per instaurare la Repubblica dei Cieli.
Anche Martin con il suo A Song of Ice and Fire va collocato, a seguito di questi illustri precedenti, entro lo stesso ambito low:
un fantasy-noir in cui non ci sono eroi idealizzati ma uomini cinici e
spesso spietati, agitati dalle passioni e dalla brama di potere, in cui
le situazioni estreme, il sesso, la violenza – di solito taciute o
edulcorate in un genere considerato a priori di fruizione young adult
– vengono invece messe in evidenza e ostentate alla massima potenza. La
stessa presenza del soprannaturale, per altro molto ridotta rispetto
alla dose abituale propria del genere – sempre in sottotono rispetto
all’intrigo politico e, appunto, alla sociologia – viene rappresentata
al di fuori di qualsiasi senso forte di sacralità, anche nel caso del
personaggio più mistico, Bran Stark, il Corvo con tre occhi, che nella
serie tv (ma probabilmente anche nel finale dell’ultimo romanzo) regnerà
su sei regni del Continente Occidentale (è escluso il settimo, il Nord,
che la sorella Sansa rende di nuovo autonomo). Così anche le creature
mitiche come i draghi (e, sembra dalle voci sul prossimo libro in
uscita, anche gli unicorni) vengono, se possibile, secolarizzate: non
dimentichiamoci che Martin giunge al fantasy dalla fantascienza.
Benioff&Weiss invece normalizzano, secondo più digeribili parametri hollywoodiani, anche questa tendenza low, riequilibrandola verso un maggior tono di high, che
svolti verso l’epico (la consacrazione a cavaliere di Brienne di Tarth,
le morti eroiche in battaglia di Jorah Mormon, Theon Greyjoy, Lyanna
Mormont, Eddison Tollett, Beric Dondarrion, Sandor Clegane, ecc.), il
romantico (le scene madri – bruciate un po’ dall’eccessiva fretta di
arrivare alla conclusione – fra Jaime e Cersei Lannister e Jon e
Daenerys Targaryen: “due cose belle ha il mondo: Amore e Morte…”),
e il mistico (la figura sempre più ieratica di Bran Stark, il
sacrificio di Melisandre, ecc.). A discapito della pregressa ambiguità
morale della saga, le carogne (simpatiche e meno simpatiche) tendono
invece, giunti al redde rationem, quasi tutte a chiudere in bellezza, mirando al riscatto e alla redenzione; i personaggi che peccano di Hybris, di
dismisura, secondo le strutture classiche della tragedia vengono puniti
(Cersei, Jaime, Daenerys, Varys, lo stesso Jon Snow), mentre sopravvive
chi ha conservato il limite e perseguito la Diche, la giustizia (Tyrion Lannister, Davos Seaworth, Samwell Tarly, Sansa Stark).
Questa Diche verrà esplicitata nell’assetto finale che il
nuovo consiglio darà al regno: la monarchia assoluta che anche la
“despota illuminata” Daenarys avrebbe mantenuto, diventa, dopo
l’eliminazione della bella Targaryen, una monarchia costituzionale in
cui un consiglio di rappresentanti delle casate maggiori dei regni
eleggerà da quel momento in poi i successori del re sul trono (non più
di spade perché l’ultimo drago sopravvissuto l’ha fuso con il suo fiato
incandescente prima di portarsi via il cadavere della madre-regina,
risparmiando l’amante-assassino, anche lui Targaryen, quindi sangue di
drago) affidato per il momento al riluttante Bran Stark, più santone,
veggente, savio, che monarca; Samwell Tarly tenterà addirittura, anche
se la proposta viene bocciata, di spingere verso la democrazia
proclamando il diritto non delle case nobiliari ma del popolo ad
eleggere direttamente il sovrano. Questa messa in discussione finale del
principio della sovranità sottrae per fortuna la saga ad ogni possibile
fisima ancien régime, tipica dell’high fantasy per riportarci ad un sano e “sociologico” realismo low fantasy.
C’è ampio spazio ovviamente, in questo finale che ha lasciato quasi
tutti delusi, per immaginare, oltre al fantomatico prequel già in
lavorazione, altri spin-off più o meno fantasiosi, che vedono
coinvolti quei personaggi abbandonati dalla conclusione della saga a un
futuro aperto e indeterminato: Arya Stark, soprattutto, che emula di
Colombo, salpa su un veliero diretto verso la sfera inesplorata
dell’Orbe; o Jon Snow, esiliato per il suo crimine oltre la Barriera –
ormai non più esistente – in mezzo ai Bruti che lo hanno adottato tra
loro, in compagnia dei quali si dirige verso l’estremo Nord; perfino la
defunta Daenerys il cui cadavere, prelevato amorevolmente dal figlio
drago sopravvissuto, Drogon, viene trasportato via in volo: qualcuno
rivela in chiusura al consiglio reale che il lucertolone volante è stato
avvistato mentre veleggia in direzione di Essos, il Continente
orientale, dove Danaerys ha compiuto le sue imprese, liberando gli
schiavi, ed è ancora amata in molte città e dove le Streghe rosse hanno
talvolta il potere di risuscitare i morti: non è facile accettare la
scomparsa definitiva della bella regina, in fondo anche il suo
nipote-amante-assassino è stato pugnalato al cuore una volta e la strega
rossa Melisandre l’ha resuscitato (“C’è qualcosa di là ?” – gli chiederanno – “Non che mi ricordi” – ha risposto)… C’è chi resta e c’è chi parte quindi, e i cliff hanger, almeno potenziali, non mancano per gli affezionati orfani dei loro beniamini.
Inutile negare che la saga in questi anni ci ha emozionato, che ci
siamo rispecchiati – anche troppo – nei personaggi e appassionati alle
loro vicende, che ci siamo innamorati di Emilia Clarke (o di Kit
Harington) e abbiamo odiato Lena Headey (o Iwan Rheaon), che abbiamo
trepidato per Nikolaj Coster-Waldau o per Maisie Williams, riso con
Jerome Flynn e pianto con Peter Dinklage e che, per forza, non ci
saremmo accontentati, comunque, di un finale qualsiasi, anzi di
qualsiasi finale. In realtà non volevamo che finisse, questa è la
verità: se altre serie le abbiamo abbandonate da tempo, estenuanti,
mentre proseguono indefinitamente, senza più niente da dire, nella noia
più totale e nella perenne ripetizione degli stessi logori schemi (sto
parlando, per esempio, di The Walking Dead, e del suo penoso spin-off, Fear the Walking Dead), Game of Thrones
aveva mantenuto almeno un potenziale sempre alto che, ben dosato,
avrebbe potuto nutrire ancora varie stagioni. Si è pensato di chiudere,
invece, forse troppo repentinamente e non proprio in bellezza.
Consoliamoci con i prossimi – se mai verranno – volumi che Martin tiene
in serbo per noi.
A dimostrazione finale di quanto l’immaginario simbolico e la sociopsicologia di Game of Thrones
abbia ormai permeato capillarmente le nostre vite, un esempio recente e
significativo: durante il travagliato comizio che il sovranista Matteo
Salvini ha cercato di tenere a Firenze, città di tutta Italia che
maggiormente ha resistito al montante inquinamento della fogna leghista,
la prima fila del corteo dei manifestanti, quella più esposta alle
numerose “cariche di contenimento” degli sbirri tanto cari al Ministro
dell’Interno, brandiva baldanzosamente uno striscione in lettere
cubitali su cui spiccava una parola in Alto Valyriano, l’ordine con cui
la Regina dei Draghi aizzava i suoi rettili volanti, consegnando i
despoti delle città della Baia degli Schiavisti all’ira purificatrice
del fuoco: “Dracarys” !
Fonte
Discorso interessante ma faccio molta fatica a comprenderlo, sarà che la società dello spettacolo, per fortuna, non mi appartiene tanto quanto al resto del mondo.
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