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28/06/2019

Il caso Puglisi, il suicidio di Paola Ferla e l’ingiusta giustizia italiana

Domenica scorsa a Roma, poco prima dell’assemblea nazionale di Potere al Popolo!, a quattro passi dalla Stazione Termini, ho finalmente conosciuto Francesco Puglisi di cui ebbi a scrivere anni fa per segnalarne il caso a dir poco feroce. Francesco ha alle spalle una storia allucinante: 14 anni di carcere per aver rotto un bancomat. Devastazione e saccheggio, come prevede il Codice Rocco. Fatti risibili al confronto con quanto fecero in quei giorni alcuni esponenti della «pubblica sicurezza», ma questa è l’Italia vera e ricordare può fare bene.

Scappò in Francia, ma la fidanzata mise mano al computer e furono costretti a fuggire ancora, stavolta però senza aver più scampo. Lo presero a Barcellona e tempo dopo la ragazza si suicidò, distrutta dal senso di colpa.

Per il bancomat rotto Francesco di anni ne ha scontati sette, ma non è finita. Ora a Rebibbia ci torna lo sera; di giorno è «libero», ma ha un gran bisogno di un segnale di solidarietà che lo aiuti a non sentirsi troppo solo e di quattro soldi guadagnati lavorando. Che posso fare per lui? Riporto quanto scrissi l’1 novembre del 2015, ma lo so bene: di parole non si campa. Spero che, leggendo, qualche compagno romano trovi modo di dargli una mano.

*****

Il 25 ottobre del 2015 Paola Ferla, 33 anni è volata giù da un poggiolo e s’è schiantata sul selciato della salita Lercari, che a Genova incrocia via Caffaro. Suicidio, dice la Mobile, e tutto si chiude lì.

Francesco Puglisi, il suo ragazzo, in carcere da due anni, ne avrà per altri dodici: a Genova 2001 mise fuori uso un bancomat. Per il Codice del fascista Rocco, che la repubblica antifascista utilizza senza problemi di coscienza, il reato comporta una pena che spezza una vita e può capitare che ne stronchi altre, com’è accaduto per Paola Ferla.

Da tempo la ragazza era costretta a due fatiche così atroci, da farle odiare la vita: la pena per il suo compagno sepolto vivo e il rimorso per una irrimediabile leggerezza. Puglisi, infatti, senza volerlo, l’aveva “tradito” proprio lei, lasciando ‘tracce’ telematiche, bancarie e del cellulare e consentendo alla Digos di ritrovarli, mentre erano latitanti a Parigi.

All’inizio la ragazza aveva reagito bene e in un appello del 2013 aveva chiesto aiuto come poteva:
«Ciao, sono Paola la ragazza di Gimmy, Francesco Puglisi... Sta in condizioni difficilissime, vive malissimo la situazione perché è stato inserito in una sezione antiterrorismo in isolamento totale... Mi comunica che sta malissimo ed è depresso che fa fatica a mangiare, in poche parole sta molto male. Mi ha detto che la mia presenza è l’unica cosa che lo faccia stare meglio o comunque sono l’unico appiglio positivo in tutta questa situazione. Sabato 22 giugno posso andare a trovarlo, me lo farebbero vedere, ma il problema qui è economico poiché gli unici treni che fanno la tratta... sono treni di lusso, molto cari... Io non posso permettermi questa spesa. Chiedo disperatamente aiuto a tutti per farmi avere questi soldi sia perché voglio vederlo ma non tanto per me ma quanto per la situazione precaria e delicata fisica e psichica che vive Gimmy, dove per aiutarlo veramente bisogna che vada a fare questo colloquio per sollevarlo di morale per quanto possa aiutarlo la mia visita che sicuramente per lui è fondamentale e vitale».
Povera ragazza. Non aiuterà più nessuno e il suo Francesco pagherà più caro il suo reato. Paola non l’ho mai vista, ma un po’ la conoscevo. Amici comuni me ne parlavano e dopotutto che importa? Fa male comunque: è stata stritolata da una legalità senza giustizia, più immorale di una franca ingiustizia. Chi l’ha conosciuta mi dice che era «terribile» e questo spiega meglio il suo volo tremendo: più «terribile» sei, più una violenza subita ti spezza se ti senti impotente. E’ morta per disperazione e vengono in mente i «suicidati» del Mediterraneo e i morti accatastati senza pietà ovunque esportiamo «democrazia». Morti che fanno pensare all’omicidio.

Lo so, ci sono parole semplici, buone per tutti gli usi: «non ha avuto fortuna... dimmi con chi stai e ti dirò chi sei... lex, dura lex... e comunque la giustizia ha da fare il suo corso». La verità è che il codice Rocco disonora la “repubblica democratica” – (qui il corsivo è d’obbligo) più di un regime apertamente oppressivo come il fascismo. Paola muore di morte riflessa, per una condanna che sta uccidendo un giovane con la galera, solitamente feroce e stavolta spropositata, in un paese che non punisce la tortura e affida la «pubblica tranquillità» agli assassini di Cucchi. Morte per lo sportello di un bancomat. E’ cosa da non credere, ma è così.

Gli autori delle denunce che hanno aperto il caso senza istruttoria di Paola Ferla hanno vissuto in divisa una delle pagine peggiori scritte da una polizia finita anch’essa davanti ai giudici, in un tribunale in cui la «legalità» ha il volto beffardo d’un principio tradito: «La legge è uguale per tutti».

Alla polizia non si sono imputati reati contro cose. Si è trattato di lesioni, torture e sangue versato. L’unico al quale si sono concesse attenuanti è un funzionario, che dopo il pestaggio si dissociò: «non lavorerò più con questi macellai qui». La violenza esercitata è risultata «ripugnante» per la Cassazione, ma il capo della polizia, De Gennaro, se l’è cavata con una «promozione» a sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

Per quanto riguarda gli altri, la Cassazione ha chiarito che le responsabilità sono riconosciute non in virtù di una presunzione teorica – «comandavano e non potevano non sapere» – ma sulla base di prove inconfutabili. Erano presenti alla «macelleria cilena», sapevano che c’era stato uno «sproporzionato uso della forza», sapevano della «messinscena» di un finto accoltellamento di un agente, delle botte, delle torture, dei feriti e delle menzogne.

Il rifiuto di collaborare ha rallentato i processi e la prescrizione ha evitato il carcere. De Gennaro ora è a Finmeccanica, Gilberto Caldarozzi gli fa compagnia, come responsabile della sicurezza, Salvatore Gava è andato all’Unicredit, Filippo Ferri, fratello di un ex ministro, è responsabile della sicurezza del Milan. I più giovani, trascorsi i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici, torneranno in divisa. Le lesioni gravi sono state prescritte e invano la Corte Europea per i diritti umani ha condannato l’Italia per le torture di Genova.

Mentre i torturatori, colpevoli di reati sulla persona, hanno fatto carriera, Puglisi è stato fatto a pezzi per un bancomat.

Una sentenza umana, lontana dagli intenti repressivi del codice Rocco, una sentenza non politica, quindi, non avrebbe sepolto in carcere Puglisi e quasi certamente non avrebbe condotto al suicidio Paola Ferla.

Paragonata a quella dei poliziotti condannati per i fatti di Genova, la sorte di Puglisi e della sua compagna dimostra ciò che storicamente è chiaro dai tempi di Mazzini: la giustizia in Italia non è uguale per tutti.

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