La più antica regola di chi osserva per mestiere il gioco politico è distinguere in via di principio tra dichiarazioni degli attori politici e interessi materiali che rappresentano. Per riuscirci, bisogna guardare ai fatti, non alle parole. Specie se gli attori che osserviamo sono, come oggi in Italia, autentiche macchine da parole in libertà.
Per comodità, ci concentriamo su due soli campi: Salvini e tutti gli altri.
Stando alle parole, tutti voglio “elezioni subito”, il “prima possibile”, “alzare il culo e aprire le Camere”.
È davvero così?
Vediamo cosa sta facendo il Truce. Ha depositato in Senato una mozione di sfiducia per il presidente del consiglio, Giuseppe Conte. Il suo presidente del consiglio.
Cosa significa? Che è stato proprio lui a parlamentarizzare la crisi di governo, ponendo le basi per avviare un iter istituzionale classico. Che è prescritto dalla Costituzione, ma certo non è il più rapido di questo mondo.
Lunedì 12 agosto, i capigruppo dei partiti presenti in Senato si riuniranno di pomeriggio – niente paura, c’è l’aria condizionata – per decidere la data in cui andrà discussa la mozione leghista. Come sanno tutti gli addetti ai lavori, le mozioni si discutono nell’ordine cronologico con cui sono state presentate.
In linea teorica il capogruppo leghista potrebbe invocare “ragioni di opportunità e urgenza”, visto che è stata aperta ufficiosamente la crisi di governo. Ma prima della loro, e prima ancora che le Camere venissero chiuse per le vacanze, era stata presentata dal Pd una mozione di sfiducia proprio nei confronti di Salvini. Insomma, siamo nello stesso livello di impatto istituzionale.
Possiamo anche lasciar perdere le ipotesi di scuola (sarebbe divertente se Lui venisse sfiduciato per primo, con i grillini a votare per il testo piddino). Ma se Salvini davvero voleva una soluzione più rapida, e soprattutto certa, aveva a disposizione un’arma sicura: ritirare la delegazione di governo della Lega, ministri e sottosegretari.
In quel caso le Camere avrebbero dovuto essere convocate immediatamente perché il governo aveva perso pezzi importanti e dunque bisognava decidere cosa fare, elezioni anticipate comprese.
Perché non ha scelto questa strada?
Semplice: Salvini non sarebbe stato più il ministro dell’interno e vice-premier. Avrebbe dovuto affrontare tutto l’iter della crisi come semplice leader di un partito che era arrivato quarto alle elezioni del 4 marzo 2018. Soprattutto, avrebbe perso rapidamente la possibilità di dettare l’agenda politica e mediatica (non avrebbe più potuto firmare “divieti di approdo” per navi Ong, sgomberi delle occupazioni, ruspe sui campi Rom, ecc).
Insomma, avrebbe perso quella centralità che “pompa” il consenso nei sondaggi e anche in vista delle elezioni.
Secondo punto. Fuori dal Viminale non avrebbe più avuto nessuna possibilità di controllare la macchina elettorale, il sancta sanctorum in cui affluiscono i dati dai seggi; insomma, la postazione dell’arbitro. Se invece riuscisse ad arrivare alla data delle elezioni in quella posizione, sarebbe il primo “capo politico” della storia repubblicana a poter contemporaneamente giocare la partita e fischiare i falli. Agli avversari, ovvio...
Insomma, ha accettato di fatto di parlamentarizzare la crisi sperando di restare al suo posto (anche se lo esercita soprattutto in spiaggia...). Ma questo significa che non punta affatto a elezioni in poche settimane (minimo due mesi, dallo scioglimento anticipato delle Camere). Anche se lo dice ogni volta che apre bocca.
Le spiegazioni possono essere molte, la più convincente è che una “legge di stabilità” contenente davvero le stronzate che va sparando non avrebbe alcuna possibilità di resistere all’esame della Commissione di Bruxelles. E il sistema-Italia dovrebbe affrontare settimane o mesi di gravi turbolenze (dall’esercizio provvisorio all’impennata dello spread e dunque dei tassi di interesse sui titoli di Stato), con ovvio panico e malcontento nella popolazione tutta. Soprattutto di chi lo avrebbe votato.
Gli altri. Anche qui, a parole, “al voto! al voto!”. In pratica sono in molti a lavorare freneticamente per rimescolare le carte e le formazioni in campo, cancellando molte squadre fin qui sempre iscritte al campionato.
Renzi sta palesemente preparando una scissione del Pd verso il mitico “centro”. L’ex berlusconiano Toti, presidente della Liguria, ha già fatto lo stesso con Forza Italia, certificando che il Caimano ormai è un ex.
Nessuno può credere che, scindendosi, qualcuna delle nuove formazioni possa ricevere dagli elettori nulla più che un calcio nel culo. Ergo, ci si divide per riunirsi con altra configurazione. Ovviamente “nuova e ampia”, “trasversale” – come si dice – tanto il programma politico vero è deciso dalla Ue... Ma queste operazioni, comunque, richiedono qualche tempo.
Il che lascia paradossalmente molto campo politico libero, ancora una volta per Salvini e in qualche misura anche per i Cinque Stelle. Che però, dalle prime reazioni, non sembrano più in grado di partorire un’idea appetibile, dopo il disastro del governo gialloverde.
Tirando le somme, dopo aver aggiunto il presidente Mattarella – che ovviamente sorveglia la situazione per impedire “strappi” pericolosi con la governance europea – non ci sembra proprio che ci sia un’ansia vera per aprire le urne in ottobre.
I comizi elettorali, invece, specie in tv, non si chiudono mai...
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