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01/08/2019

Nicaragua, sandinismo o golpismo


Managua. Riavvolte le bandiere, spenti gli altoparlanti, le celebrazioni per il quarantennale della vittoria sandinista si sono completate nella loro parte scenografica. Non in quella emotiva, però: la eco di una manifestazione grande come da dieci anni non si vedeva, lo scorrere nelle vene di tanta mistica ritrovata dopo l’aggressione subìta, continua a circolare nell’aria. La respirano con orgoglio i militanti sandinisti ricompattati, che hanno visto nel 19 Luglio non solo la celebrazione dei quarant’anni che furono ma di quelli che verranno. Non vi saranno altre sottovalutazioni. Si può dire che la fine della manifestazione abbia segnato l’inizio della campagna elettorale più lunga della storia nicaraguense, perché si voterà nel Novembre del 2021 ma le prime mosse sono già allo studio.

Il FSLN resta il gigante con cui destra, chiesa, Usa e UE devono fare i conti quando sul tavolo c’è il Nicaragua. Come se ci fosse un FSLN di lotta e uno di governo, sembra conservare decisamente la sua identità guerrigliera mentre delega al suo governo i grandi passi avanti nel tessuto socioeconomico. Radicato in ogni angolo del Paese, ha dimostrato di avere forza politica e militare, disciplina assoluta nei confronti del suo Comandante, fiducia cieca nella sua leadership. Sono elementi, questi, che fanno del sandinismo un partito unico nel quadro della sinistra internazionale; per quanto possano darsi posizioni contrastanti, sensibilità diverse, l’elemento determinante, alla fine, è l’obbedienza assoluta al suo Comandante. Come lo furono Fidel per i cubani e Chavez per i venezuelani, Daniel Ortega per i sandinisti è molto più che un leader: è il Comandante in Capo.

I soliti alzatori professionali di sopracciglia potranno ritenere tutto questo un delinearsi della versione tropicale del culto della personalità, un fattore di rischio per il politicamente corretto che sprofonda nei divani, aspetti inaccettabile per i mai paghi di sconfitte; ma il fatto è che Daniel Ortega è idolatrato dalla sua gente e viene considerato dal sandinismo, ed anche oltre le sue fila, un padre della Patria più che un Presidente.

E qui, in una parte di mondo dove i sofismi evaporano, dove con maggior violenza si soccombe alle intemerate golpiste della destra, il politicamente corretto viene visto come un esercizio verboso per intellettuali garantiti. Qui, dove tra il tutto e il niente, tra pace e guerra scorre un voto, partecipare assume il valore di un gesto dovuto, di una nobiltà ideale, ma vincere è imperativo categorico, è destino irremovibile, capolinea del tragitto tra vivere o perire. Sarà Daniel a guidare il suo popolo alla prossima tornata elettorale, ogni eredità risulterebbe anzitempo. Ci si aspetta quindi una mobilitazione generale di tutta la destra internazionale per colpire quella che è, senza ombra di dubbio, una icona per la sinistra latinoamericana, l’ultimo Comandante guerrigliero della storia rivoluzionaria e socialista di questo lembo di mondo.

La destra che lo sfiderà è tutta da decifrare. Politicamente analfabeta ma carica di odio, non ha altra idea di futuro che non sia la vendetta e sogna l’intervento statunitense come panacea delle sue incapacità. L’identità è classista e razzista. Nessun programma, nessun contenuto, nessun leader. Al suo interno è scontro tra l’opposizione storica che raccoglie liberali, conservatori, social cristiani e il nuovo partito fondato dalla gerarchia ecclesiale: Alleanza civica. Quest’ultima sostiene di essere l’unica opposizione credibile, la sola autorizzata a muovere sullo scacchiere politico, mentre i partiti tradizionali non lo sarebbero. Immagina il tessuto politico del paese come un immenso inciucio tra sandinisti e tutte le forze politiche, ritenendosi essa, invece, la voce autentica del popolo. Che poi i suoi dirigenti siano solo latifondisti e alti prelati, banchieri e padroni, è solo una fortuita coincidenza. Un luogo strano appare il Nicaragua ad un visitatore di primo arrivo: il governo fa crescere l’economia e gli imprenditori si dedicano a danneggiarla, il FSLN chiede la conciliazione e la chiesa fonda partiti e benedice golpisti.

Il discorso politico a destra langue. Di che parlano? Di censura e repressione, di inesistenti prigionieri politici e fantomatiche persecuzioni; invocano sanzioni e punizioni straniere per il proprio paese reo di non assecondarne i desiderata. Un disco rotto, alla ricerca di qualcuno che all’estero dia credito ad un disegno basato sulla reiterazione continuata della menzogna. Del resto, tutto si muove in funzione del denaro che parte dagli USA e atterra qui: se non c’è repressione non c’è resistenza, se non c’è resistenza non ci sono i fondi per sostenerla. Per questo ogni tanto inventano uno show con 30-40 persone: i media di proprietà della famiglia corrono, inventano la mobilitazione, inviano i video manipolati a Miami e i loro editori passano all’incasso. Principio dei vasi comunicanti in salsa tropicale.

Circolando per Managua si avverte è che il narrare oppositore è una truffa ma, nonostante il clima tranquillo, che l’aria sia più tesa e che l’incertezza abbia guadagnato spazio non lo si può negare. Alcuni ristoratori dicono che gli affari vanno male ma espongono prezzi europei per i pranzi dei nicaraguensi. Le storie sui locali deserti e la gente chiusa in casa sono fake news: i locali sono pieni, nei mercati i prodotti straripano e uscire da Managua il fine settimana obbliga a file di ore sulle carreteras. Certo, la crisi economica derivata dal tentativo di colpo di stato ha lasciato ferite: dopo anni di ininterrotta crescita alla media del 4,5 annuale, il 2019 e 2020 avranno il segno meno: 1800 milioni di dollari di danni all’economia non si ripianano così rapidamente in un paese che ha un PIL che ammonta a un terzo di questa cifra.

Quanto avvenuto, il timore che possa ripetersi, ha in qualche misura disincentivato gli investimenti esteri e la grande impresa (che forma il 30% del PIL) denuncia i suoi indicatori al ribasso. Non così la piccola e media impresa e quelle a conduzione familiare, che insieme allo Stato contribuiscono per il 70% al PIL. La crisi della grande impresa e del latifondo ha un sapore più politico che economico: il ricorso massiccio ai licenziamenti non ha certamente migliorato l’economia del paese. Ma non ci sono solo finalità di bilancio, si tratta in buona parte di terrorismo socio-economico. Si licenzia per generare un senso di inquietudine collettiva circa il destino dell’economia. Non come risposta alla crisi ma per determinarla. La famosa responsabilità sociale dell’impresa giace sotto il manuale di Gene Sharp sul golpe blando.

Perché il tentato colpo di stato è finito ma la dinamica sovversiva di destra, impresa e gerarchia ecclesiale, prosegue. Solo si è trasformata in strategia di destabilizzazione economica. Si invita inutilmente il piccolo commercio a chiudere gli esercizi, si indicono scioperi generali che non riescono, si lanciano allarmi su una dimensione della crisi economica che è totalmente artificiosa e priva di riscontri. L’intento di sovvertire il Paese ha solo cambiato metodologie e obiettivi intermedi, non certo lo spirito e l’obiettivo finale.

La speranza della destra è che il 2020 porti nuove sanzioni statunitensi ed europee. Che si delinei un quadro sistemico che veda il Nicaragua andare alle urne nel 2021 assediato dalle sanzioni internazionali, con una crescita minore - se non con una crisi vera e propria - e con una popolazione che riveda il film dell’aggressione alla Rivoluzione con alcuni degli strumenti utilizzati già negli anni ’80.

Abbondano i suoi possibili candidati, quasi tutti autonominati: stile Guaidò, per intenderci. Alcuni leaderini improvvisati nutrivano ambizioni eccessive ma hanno fatto male i loro conti. Scarso lignaggio per osare la prima fila. Perché quando le armi tacciono, emergono dai rifugi coloro che davano ordini nascosti; i camerieri del golpismo apparecchiano, ma è l’oligarchia che si siede a capotavola.

L’ambasciatore USA a Managua, Kevin Sullivan, ha dato ordine di riunirsi tutti sotto le insegne di Ciudadanos por la libertad e di scegliere il ticket Felix Maradiaga e Cristiana Chamorro per la sfida elettorale. Chi sono? Maradiaga, uno dei proprietari delle ONG golpiste, si è formato e addestrato negli USA e a Belgrado, dove la Otpor gli ha insegnato le tecniche del “golpe blando” di Gene Sharp. È intelligente ma privo di carisma, tanti soldi ma poco popolo: dicotomia non semplice da risolvere. Cristiana Chamorro è invece l’ennesimo prodotto della nidiata Chamorro’s, la famiglia oligarchica che ha sempre visto il Nicaragua come una gigantesca fattoria di proprietà.

Compito non semplice quello statunitense: provarono senza successo già nel 2006 ad unificare l’antisandinismo per impedire la vittoria di Daniel Ortega. Non ci riuscirono perché ogni tanto anche i servi si danno arie da padroni. A Washington pensano che oggi l’occasione sia più propizia ma è da vedere, perché il livello di litigiosità interna alla destra viene da lontano ed è tutt’altro che sopito. In questo contesto il ruolo del MRS, riconosciuto professionista del tradimento, rappresenta l’incognita più ardua del percorso unitario. Gli adepti di Sergio Ramirez e Dora Maria Tellez ufficialmente non vogliono CxL ma fondano una sigla al giorno per così sedersi con maggiori chanches al tavolo della coalizione e raggranellare posti. Controllano una buona parte delle finte ONG, l’ala militare del golpismo e i rapporti con la cosiddetta “sinistra” europea, ma non vanno oltre il 2% dei consensi se gli va bene e liberali e i conservatori non gli perdonano il passato sandinista.

A scompaginare il quadro potrebbe arrivare il cosiddetto “Papa nero”, che al secolo è possibile identificare in Silvio Baez, il Monsignore del golpismo richiamato a Roma proprio per il suo ruolo nel tentativo di colpo di stato del 2018. Intercettato mentre affermava che voleva inviare Daniel Ortega e Rosario Murillo alla fucilazione e rivendicando a se stesso ed alla chiesa l’invenzione dell’Alleanza Civica, potrebbe in qualche modo rappresentare il trade union della destra. Colto, appartie ai Carmelitani ma è stretto alleato dell’Opus Dei e dei Legionari di Cristo. Espressione delle gerarchie ecclesiali latinoamericane, nemiche acerrime di Papa Francisco e impregnate di ideologia fascista, potrebbe autosospendersi dall’abito talare per correre alla presidenza. In fondo, mal che va, lo stipendio di deputato è più alto di quello da Vescovo. L’ambizione politica non gli manca, anzi, così come non gli fa difetto l’ego, davvero ipertrofico. Ma la superbia e l’arroganza di cui dispone frena le possibili alleanze e c’è anche da considerare che la sua candidatura otterrebbe l’effetto di mobilitare gli evangelici a favore del FSLN, dato che la sua sconfitta equivarrebbe ad una sconfitta delle gerarchie ecclesiali nicaraguensi, aspetto questo particolarmente interessante per le chiese evangeliche.

Ma se pensa che la famiglia Chamorro si farà da parte, il Monsignore sbaglia. La candidata sarà comunque Cristiana Chamorro. Perché è lei a poter riassumere in sé il rapporto privilegiato con gli Stati Uniti, la leadership della borghesia e del latifondo parassitario del paese e la proprietà di Ong e mezzi di comunicazione, ovvero gli elementi fondamentali per dare il via alla guerra per riportare nelle mani del padronato e nella sfera d'influenza di Washington il Nicaragua. La campagna elettorale sarà una fase della guerra di classe che l'oligarchia scatenerà. Welfare, spesa pubblica, investimenti per la guerra alla povertà ed allo squilibrio sono blasfemie intollerabili: trasformare i diseredati e dimenticati in soggetti di diritto politico un affronto imperdonabile alla casta.

Alla fine, però, il principale problema della destra sarà quello di spiegare cosa vorrebbero fare. I loro sedici anni di governo, che gettarono il Nicaragua nella miseria nera, non sono abbastanza lontani da scivolare verso l’oblio. Ma comunque per il FSLN non sarà una passeggiata; il sandinismo ha amici dal cuore grande ma nemici dai denti aguzzi. Vogliono lo scalpo di un nemico mai sconfitto e cercheranno ogni mezzo, lecito e soprattutto illecito, per aver ragione dell’indomabile.

Il FSLN dovrà mobilitare tutto il suo popolo, evidenziare e rivendicare quanto fatto. Il Nicaragua oggi è esempio di modernizzazione ed equità sociale, di crescita dei diritti e limitazione dei privilegi. Porta luce e strade nel buio dei cammini un tempo bui e dissestati, mette tetti sulle teste di chi subiva la furia del cielo, offre pavimenti nuovi dove c'era terra e polvere, fa sognare il futuro a chi prima lo temeva. Raffrontare e ricordare sarà necessario: guardare e giudicare è già prendere la rincorsa per andare a votare e stabilire, una volta per sempre, che il sogno si è fatto sistema e che, quaranta anni dopo la vittoria, Sandinismo e Nicaragua sono ormai sinonimi dell’identico animo.

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