1) Quel che sta avvenendo nella crisi economica tra le due sponde dell’Atlantico è un processo di dimensioni storiche epocali, che mette fine a 75 anni di governance sotto l’egemonia Usa.
2) In questo processo le élite di Francia e Germania spingono per una “stretta” sulle istituzioni dell’Unione Europea tale da trasformarla in un competitor mondiale al pari di Usa, Russia e Cina. Anche sul piano militare.
3) Questo ridisegno smantella alla radice la retorica fetente sull'“Europa che ha garantito 70 anni di pace”, che già dimenticava sistematicamente sia le guerre fatte dall'“Europa” fuori dai confini continentali (Iraq, Libia, Afghanistan, ecc.), sia quelle all’interno di quel confine (su tutte, la guerra per smantellare la Jugoslavia).
4) Il ruolo dell’Italia in questo processo è tutto da decidere, ma i nostri “governanti” sembrano totalmente inadeguati – sia a destra, sia gli “euro entusiasti” del Pd, sia a maggior ragione gli absolute beginners pentastellati – a comprenderne almeno le coordinate generali (gli interessi in gioco). Figuriamoci tracciare una linea d’azione autonoma e strategicamente plausibile.
5) I lavoratori e le classi popolari di tutta Europa sono come sempre trattati come pura massa di manovra e sperimentazione di tecniche di distrazione di massa, sia dai “populisti reazionari” che gridano all'“invasione”, sia dai “democratici” che strillano contro il “nuovo fascismo” straccione.
6) “Far politica” alternativa significa muoversi avendo in testa questo quadro, altrimenti qualsiasi “programma politico” è wishful thinking, dal sapore un po’ naif. Sogni scritti sulla sabbia...
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Così come Boris Johnson non è Theresa May, anche l’Unione europea senza la Gran Bretagna sarà profondamente diversa dal passato. Sembrano affermazioni ovvie, banali, ma delineano un cambio di strategie netto e radicale, che riguarda ad un tempo gli equilibri europei e quelli transatlantici.
L’Italia è attratta contemporaneamente dai due poli, quello angloamericano e quello continentale ed i recenti cambi di governo e di maggioranza sono solo le prove d’orchestra di uno spartito ancora tutto da scrivere.
Bisogna partire dalla nuova premiership britannica, che segna un cambio di direzione netto, che non è solo più aggressivo sul piano della Brexit, ma che metterà più di un bastone tra le ruote dell’Asse franco-tedesco.
Sui rapporti con l’Unione europea, anche Theresa May era riuscita ad accattivarsi la fiducia del suo Partito sbandierando lo slogan “Brexit means Brexit”. Lei, sempre molto tiepida rispetto a questa prospettiva, tanto da essere annoverata nello sparuto ma irriducibile manipolo di Conservatori fautori del Remain, si era in fine convertita. È stato un cambiamento poco convincente, alla prova dei fatti, perché fondato su una soluzione unica ed obbligata, l’approvazione ai Comuni dell’Accordo di recesso dall’Ue che aveva concordato con Michel Barnier, il Capo negoziatore di Bruxelles. “Nessuna alternativa è possibile”, perché l’Hard Brexit, l’uscita senza alcun accordo, scatenerebbe l’inferno. Carenze di medicinali e di generi alimentari, caos indescrivibile a Dover con migliaia di camion bloccati in file chilometriche. Più che previsioni, si tratta di una vera e propria fear strategy.
Nonostante i tre passaggi parlamentari, nessuna maggioranza a Westminster è stata in grado di approvare il testo di Accordo: visto che a Bruxelles si rifiutavano di riaprire i negoziati, nonostante le ripetute richieste della May, l’unica soluzione è stata il differimento del termine biennale previsto dal Trattato per regolare il recesso dall’Unione.
Theresa May, sorniona, considerava questi rinvii come il male minore: prima o poi, visto che Bruxelles era irremovibile, a Westminster avrebbero messo la testa a posto ed approvato l’Accordo.
D’altra parte, l’Accordo stesso contiene un rinvio sine die della data di uscita della Gran Bretagna dal Mercato Interno. La clausola del backstop congela la questione della frontiera tra le due parti dell’Irlanda finché le due parti non troveranno l’intesa su un sistema legale e pratico che consenta di controllare effettivamente, purché senza barriere fisiche, i movimenti di merci e persone. È una contraddizione in termini, che fa il gioco di chi vuole bloccare una Brexit effettiva, che implica una Gran Bretagna estranea al Mercato interno europeo e che torna libera di stipulare accordi commerciali internazionali.
L’Europa non vuole assolutamente rinunciare al ricco e profittevole mercato inglese, con la Germania che fa la parte del leone, avendo realizzato un attivo di ben 48 miliardi di dollari nel 2017.
L’Accordo con il backstop sulla frontiera irlandese assolve dunque ad una duplice funzione: mentre trattiene la Gran Bretagna all’interno del Mercato interno assicurando i conseguenti profitti commerciali, la espelle dai circuiti decisionali europei: l’Asse franco-tedesco si toglie dai piedi una fastidiosissima spina.
Per mantenere comunque lo status quo, si è proceduto al ripetuto differimento della data ultima per il Recesso. Il nuovo termine scade il 31 ottobre prossimo, alla vigilia dell’insediamento della nuova Commissione europea. È un crinale, politico ed istituzionale, che ha già implicato una forzatura, con la partecipazione della Gran Bretagna alla elezione del nuovo Parlamento europeo nella scorsa primavera. Se si verificherà la Brexit, i rappresentanti inglesi decadranno ed a loro posto subentreranno altri eletti negli altri Paesi membri. Altrimenti, rimarranno a Strasburgo, chissà per quanto tempo ancora.
Se c’è chi spera in un nuovo rinvio, una partecipazione della Gran Bretagna a pieno titolo alle rinnovate istituzioni europee non è più praticabile, anche perché Francia e Germania hanno intenzione di ridisegnare l’Unione secondo una strategia comune, soprattutto rafforzando il versante politico e militare, strategia a cui la Gran Bretagna non è solo estranea, quanto ostile.
Ci avviciniamo ad un’area di violente turbolenze.
C’è già in corso un rallentamento economico, che coinvolge per la prima volta la Germania, mettendone in luce le debolezze strutturali. È una questione che tocca da vicino l’Italia, per le interdipendenze tra i rispettivi sistemi produttivi.
Il destino geopolitico dell’Italia torna in bilico tra due collocazioni: una autonoma rispetto alle potenze continentali, come è nella storica visione della Gran Bretagna, poi condivisa dagli Stati Uniti; l’altra è di integrazione ulteriore in un processo di egemonia europea guidata dall’asse franco-tedesco.
La nuova maggioranza di governo che si sta formando in Italia sembra fortemente orientata a rafforzare i legami con l’Europa, ma poco consapevole delle tensioni in atto sull’altro versante. Il ruolo di attore geopolitico che Parigi sta cercando di ritagliarsi per l’intanto, ha una duplice finalità: riequilibrare i rapporti di forza con Berlino e creare uno spazio per una Unione europea che si ponga come attore indipendente, anche sul piano militare, a livello globale.
Boris Johnson ha ottenuto un mese di tempo per proporre alla Unione europea una soluzione sulla questione della frontiera irlandese. Mentre si dichiara pronto ad uscire anche senza Accordo, provocatoriamente fa sapere che in questo caso non pagherebbe neppure la penale dei 42 miliardi di euro che è stata concordata con Bruxelles. O c’è un accordo su tutto, o non c’è su nulla.
A Westminster si cerca disperatamente una soluzione per evitare la Hard Brexit, quale che sia: con una legge, con una mozione che vincoli il governo, convocandosi in seduta straordinaria, addirittura ipotizzando un coinvolgimento della Regina.
Quella della Brexit è una vicenda lunga e drammatica. Ora, Boris Johnson vuole tagliare corto: in cauda venenum.
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