“Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”... In questi giorni la massima meno sgangherata di Carl Schmitt – reazionario, anticomunista, para-nazista – aleggia in sottofondo per tutta Europa.
Un ordine si sta sfarinando sotto i nostri occhi. Quel che soltanto una settimana fa era impensabile, vietato, ridicolizzato, è diventato normale, ovvio, necessario, indispensabile, un “modello”.
La lista è infinita.
Chi ricorda più la corrispondente del Tg3 Giovanna Botteri che bacchettava quotidianamente Pechino per aver “nascosto e sottovalutato” il primo focolaio di coronavirus a Wuhan, stigmatizzando l’ordine di “restare in casa” come classico rimedio da “dittatura”? Ora le si potrebbe obiettare che qui, nella “democratica e trasparente” Italia, il numero attuale dei contagiati (27.980) corrisponderebbe a circa 650.000 cinesi (sono stati poco più di 80.000, lì)
O, per restare in Europa, ricordate quando la nostra “modesta proposta” di requisire la sanità privata – una settimana fa! – per far fronte alla marea di malati che la sanità pubblica non riesce più a curare veniva bollata di “nostalgia sovietica”? Ieri la Spagna ha deciso di farlo, pur in presenza di un quadro epidemico al momento meno grave di quello italiano.
E per finire. Ricordate quando non si poteva fare nessuna spesa in deficit perché “dove si trovano i soldi”? Quante volte su questo tasto si è dovuto fare a sportellate con tecnocrati come Cottarelli? Tutti i paesi europei stanno approntando piani per far fronte alla situazione che prevedono decine di miliardi subito, solo per tamponare le necessità più urgenti. Sapendo bene di doverne mettere presto a disposizione centinaia, altrimenti crolla tutto.
Un sistema di produzione e di vita costruito sulla dominanza assoluta del “privato” su ogni dimensione “pubblica” (perché sarebbe ontologicamente “inefficiente”, “sprecona”, “corrotta”, ecc.) si è arrestato impotente davanti al meno previsto dei problemi universali: una pandemia.
Improvvisamente tutti, imprese e “mercati” in primo luogo, si girano e cercano disperatamente quello Stato che avevano amputato (meno che per le forze di polizia, eserciti e prigioni), vilipeso, sbeffeggiato, denutrito (l’evasione fiscale come “autodifesa”, ricordate?).
E si scopre come una rivelazione divina che lo Stato, qui, non c’è più.
Se non, appunto, come polizia, eserciti, prigioni, qualche ospedale con pochi fondi e personale sempre più precario. Che però servono a ben poco, quando c’è da fermare un virus e da sostenere un’economia congelata.
Le funzioni sovrane relative a politica economica, moneta, relazioni estere, ecc. sono state “esternalizzate” ad un ente ircocervo come l’Unione Europea, che non è uno Stato e non è una confederazione tra Stati.
Un ente che funziona col “pilota automatico” descritto nei trattati costitutivi quando c’è da regolare l’ordinaria amministrazione – dalla disciplina di bilancio alle dimensioni delle carote ammissibili sul mercato – ma che dipende dal “concerto” dei capi di Stato e di governo quando si deve affrontare l’imprevisto.
Un insieme profondamente disomogeneo, perché costruito sulla “competizione interna”, che ha moltiplicato e approfondito i differenziali di sviluppo che aveva promesso di far convergere. Hanno messo insieme 27 roulotte concorrenti, invece che una Casa Comune.
In teoria c’era una istituzione comunitaria rivelatasi anche operativamente utile, alcune volte: la Banca Centrale Europea. Ma anche questa ha dichiarato default con la presidente Christine Lagarde. Le “correzioni” successive alla sua disgraziata sortita (“Non siamo qui per ridurre gli spread, non è la funzione della Bce”) non hanno ovviamente potuto cancellare la certezza che questa istituzione non metterà in campo – o perlomeno non lo farà mai nella dimensione necessaria oggi – la funzione più classica di qualsiasi banca centrale: prestatore di ultima istanza. Ovviamente senza limiti prefissati, ma a seconda di necessità, scienza ed esperienza.
L’Unione Europea, potenziale gigante economico, si ritrova senza capacità di governo politico avendo affidato tutto ad una governance tecnocratica. E dunque si trova davanti al classico bivio delle situazioni critiche, di emergenza vera e non solo di quella “narrata mediaticamente”: o diventa quel che non ha voluto essere (uno Stato plurinazionale, con bilancio, risorse, fisco, ecc. comuni), oppure si sfascia.
Europeisti impazziti
Gli analisti più seri, in questo frangente, “battono in testa”. Tutto il loro modo di pensare precedente si rivela inutile di fronte alla realtà in rapidissimo mutamento. Si blocca la circolazione e la produzione, si fanno calcoli sui danni con cifre che – a regole esistenti – occorrerebbero decenni per essere ripianate. Si invoca la Cina perché ci regali un Piano Marshall e ci permetta la “ricostruzione”.
Europeisti di provata e pluridecennale fede scoprono con orrore che l’amata Germania (e l’Olanda, ecc.) sta facendo un gioco orrendo:
“In certi ambienti europei serpeggia l’idea che questo è il momento in cui l’Italia finisce in un angolo e dovrà accettare quel che ha sempre rifiutato: un salvataggio del Fondo monetario internazionale o delle istituzioni europee. Dovrà accettarne anche le condizioni, naturalmente.”
E infatti, l’Eurogruppo tenuto ieri “ha esaminato anche la possibilità di attivare il fondo salva-Stati Mes, creato nel 2012, per finanziare un piano di interventi coordinato a livello europeo”. Una volta attivato, tutti gli Stati che venissero ora “aiutati” secondo quelle regole si ritroverebbero nelle condizioni della Grecia del 2015. Espropriati come Stati delle decisionalità e come popolazione dei propri averi e redditi.
La follia ordoliberista tedesca
Non c’è nessuna ragione ideologica o scientifica, sotto questa spinta descritta con orrore dagli “europeisti democratici” e con finta indignazione dai “nazionalisti nordisti” (che vedono come ultima possibilità di sopravvivenza l’autoconsegna al colonialismo implicito nelle filiere produttive che lavorano per imprese tedesche).
L’economia europea regolata dall’ordoliberismo era in stagnazione da oltre un decennio. I deficit dei paesi meno forti si traducevano in un surplus gigantesco – in violazione delle regole di Maastricht, ma mai sanzionato – della Germania e delle sue imprese.
Quel surplus, che avrebbe rivitalizzato le economie del vecchio Continente se reinvestito nell’economia reale (più attività, più ricerca, salari più alti, ecc.), ha preso invece per anni la via dei mercati finanziari statunitensi. In molti hanno descritto e quantificato questa massa enorme di capitali che andavano a comprare, per esempio, titoli di Stato Usa (treasury), azioni, prodotti finanziari ad alto rendimento ed alto rischio.
Il crollo delle borse mondiali, e soprattutto statunitensi (ora anche Trump ha dovuto ammettere che prima di agosto, come minimo, l’economia non potrà liberarsi dell’handicap coronavirus), ha bruciato gran parte o tutta quella montagna di carta moneta.
La tentazione di rifarsi sugli sfortunati partner europei deve essere immensa, incontenibile, famelica… una questione di sopravvivenza stile Highlander: ne resterà soltanto uno.
Nulla, insomma, che possa costituire una visione, una leadership “morale” per un Continente che dovrà risollevarsi da una vera e propria guerra – in termini di distruzione e danni – che non dispone di un prestatore di ultima istanza.
Né può recuperarlo, ripristinando le banche centrali nazionali come libere di battere moneta secondo necessità, senza distruggere con ciò stesso l’unico emblema realmente comune: l’Euro.
Ognuno per sé, da solo e in competizione con tutti gli altri, dentro una moneta comune che non si può governare, ma costretti a ricorrere ai prestiti dei “mercati finanziari” alle condizioni capestro che questi metteranno. Differenziate per paese, forza, prospettive.
Potere, moneta, ricostruzione
Lo “stato di eccezione” in cui stiamo entrando è tutt’altro che una “parentesi” da cui usciremo tornando a “vivere come prima”. Intanto per il buon motivo che nessuno sa quanto ci vorrà per uscire dall’emergenza sanitaria che ci blocca tutti in casa. Ogni giorno che passa, soltanto per l’Italia, significa un taglio drastico al Pil. Che “prima” era di 5 miliardi al giorno, circa; ora, molti meno. Ogni giorno di crisi in più è uno scavo in fondo al pozzo
Ma se l’economia è ferma o quasi, non lo sono affatto i poteri che hanno governato questo Continente negli ultimi decenni. Sanno loro, meglio di tutti, che “Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione”. E stanno mettendo a punto le decisioni che “performeranno” il futuro. O almeno provano a prospettarlo.
Un sistema che crolla non lascia il vuoto assoluto, ma un tentativo di nuovo ordine, basato sulla forza relativa che ognuno dei sopravvissuti potrà mettere in campo.
Se non trovano opposizione.
Un altro mondo
Una sola cosa ci sentiamo di dire ora. La crisi di un sistema porta con sé anche la crisi di un pensiero. Che era stato fra l’altro così egemone da essere considerato e considerarsi unico.
Quel pensiero, dal lato delle classi dirigenti, comporta una immensa difficoltà a immaginare un altro ordine che non sia la ripetizione – impoverita, magari – di quello precedente. Con altre gerarchie, ma tutte da decidere sul piano della forza (in primo luogo economica e finanziaria, visto che in Europa di grandi eserciti competitivi globalmente non c’è quasi traccia).
Ma il problema di “cambiare modo di pensare” si pone in modo prepotente anche in chi si concepisce come opposizione a questo mondo, come “alternativa”, come “sinistra radicale”.
Quasi tutto quel che prima costituiva le coordinate con cui inquadrare il mondo non sta più in piedi. Non parliamo dell’“impianto teorico”, della critica al capitalismo, ecc. Parliamo della logica politica, del modo di stare in campo e concepire le “pratiche”, di movimento o politiche che fossero.
In altre parole, tutti gli “alternativi” – noi compresi, ovviamente – si erano abituati ad un mondo fatto in quel modo, immodificabile se non marginalmente e a costo di immensi sforzi. In quel quadro, tutto ciò che noi potevamo fare era un’opposizione più o meno dignitosa, ma sapendo che non avremmo cambiato granché. Perché non dipendeva da noi. Per ragioni di peso, forza, spessore degli attivisti, radicamento, “sensibilità delle masse” e un’infinità di altre ragioni.
Ma se non hai possibilità concreta di cambiare il mondo, pian piano scompare anche il pensiero del cambiamento, e in quali modi ciò potrebbe avvenire.
È nelle grandi crisi sistemiche, “epocali”, mondiali, che il cambiamento si impone come necessità oggettiva. Ma può avvenire, oppure no, a seconda di quanto si comprende – almeno questo – che “il prima” non tornerà mai più.
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