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11/03/2020

La peste ai tempi dell’austerity

Il vero problema che è stato messo a nudo dall’emergenza del coronavirus è che, mentre dormivamo, hanno ridotto il nostro servizio sanitario nazionale a pezzi. Lo stiamo apprendendo in queste ore: i nostri ospedali non sono in grado di garantire le cure ad un numero di contagiati da coronavirus che sta crescendo in modo esponenziale.

Certo, un virus inatteso e tutto nuovo, per il quale non ci sono ancora cure adeguate, né un vaccino pronto. E tuttavia, proprio la crescita esponenziale degli ammalati da coronavirus, che vengono presi in carico dagli ospedali, in preda a crisi respiratorie, ha messo quasi subito alle corde un sistema che, anche nella "progredita" Lombardia, era già ridotto all’osso.

I macchinari per la terapia intensiva e sub-intensiva non sono sufficienti per contrastare le polmoniti interstiziali ed il personale medico e paramedico – sempre meno numeroso e sempre più carico di lavoro – si sta trovando, proprio in queste ore, nella più nella terribile delle circostanze: quella di dover scegliere di curare il paziente che “ha più chance di sopravvivere” e di lasciar morire gli altri.

Eppure, prima di questa catastrofe, erano tutti d’accordo – Unione Europea, Governi di centro destra e centro sinistra, sindacati maggiori e sistema mediatico – nel condurre la pluriennale opera di sistematica demolizione che ha ridotto drasticamente il peso e la capacità della sanità pubblica italiana per rendere sempre più appetibile e concorrenziale l’offerta dei gruppi privati e delle grandi assicurazioni.

Una sistematica e virulenta opera di demolizione che – complici i grandi sindacati – ha creato le condizioni più favorevoli per chi voleva mangiarsi la grande torta della polizze sanitarie private e favorire spietatamente l’affermazione e la diffusione della “sanità integrativa” (quella che ti curano se paghi) inserita coattivamente anche nei contratti di lavoro.

Un’operazione di strisciante privatizzazione che ha replicato, pari pari, quella avviata a metà degli anni novanta, dell’abrogazione delle pensioni di anzianità, con la contestuale istituzione dei fondi pensione “chiusi” gestiti congiuntamente da assicurazioni e sindacati e con l’introduzione del calcolo contributivo che – nel combinato disposto con le varie norme che hanno reso discontinuo e precario il lavoro – determina assegni pensionistici da fame.

10 anni di tagli lineari per un ammontare di 37 miliardi. Tagli ai servizi – mica agli sprechi ed ai privilegi – che hanno messo il nostro Servizio Sanitario Nazionale praticamente in ginocchio. Ed ora paghiamo il conto.

Secondo il report della Fondazione Gimbe pubblicato a settembre 2019, in termini assoluti il finanziamento pubblico in 10 anni è aumentato di 8,8 miliardi, crescendo però in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua. Un taglio che si è traduce in un calo nel livello di assistenza: stimata una perdita di oltre 70.000 posti letto negli ultimi 10 anni, con 359 reparti chiusi, oltre ai numerosi piccoli ospedali riconvertiti o abbandonati.

Era lo scenario che cercavo di rappresentare in questo articolo del maggio 2017 ed in quest’altro qui del 24/01/2018.

E pensare che, appena 13 anni fa, Michael Moore, nel suo film “Sicko”, aveva descritto il nostro servizio sanitario come uno dei migliori del mondo e come un esempio per il suo paese. Quel paese – gli Stati Uniti – in cui ti lasciano ancora morire sul marciapiede di un pronto soccorso, se non sei possiedi una polizza sanitaria in tasca. Quel paese al quale stiamo assomigliando, ahimè, sempre di più.

Ringrazio il compagno Giuliano Granato per la tabella comparativa seguente che riporta la situazione dei posti letto per ogni 1.000 abitanti (dati OCSE) da cui si evince come purtroppo il nostro paese sia già rovinosamente scivolato agli ultimissimi posti.


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