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08/12/2020

Venezuela - La vittoria del Gran Polo Patriottico consolida e rilancia il processo bolivariano

Le elezioni legislative svoltesi domenica 6 dicembre in Venezuela sono un indubbio successo per il Gran Polo Patriótico.

Le urne sanciscono la tenuta del processo bolivariano proiettandolo in avanti, con un possibile “effetto volano” per quella nuova ondata progressista che, in forme differenti, si sta affermando in America Latina: Argentina, Bolivia e Cile, nonché per quelle lotte che in Perù ed in Guatemala stanno mettendo in discussione i lasciti di un morente neo-liberismo.

In poco più di 20 anni, in Venezuela, ci sono stati 24 test elettorali, 22 dei quali vinti dalla dirigenza bolivariana. Ma nonostante questo vi sono Stati – tra cui la maggioranza dei Paesi dell’Unione Europea – che ancora si arrogano il diritto di negare la patente di democraticità al Paese latino-americano.

Il Polo – la coalizione guidata dal PSUV – ha ottenuto quasi il 70% dei voti. Si sono recati alle urne circa 1/3 degli aventi diritto, per eleggere 277 rappresentanti su ben 14.400 candidati, in rappresentanza di più di un centinaio di formazioni politiche, di cui circa un terzo di dimensioni nazionali.

Il dato della “scarsa” partecipazione al voto dev’essere contestualizzato, tenendo conto dell’afflusso maggiore che si registra in genere per le elezioni presidenziali, che scende parecchio negli appuntamenti elettorali di questa tipo. Alle presidenziali del 2018, per esempio, votarono il 46,1% degli aventi diritto, mentre nelle legislative del 2005, durante la presidenza Chavez, la partecipazione era stata del 25%.

Un dato comunque non scontato, vista la situazione di precarietà sanitaria dovuta al contagio da Covid-19 – nonostante lo scrupoloso rispetto dei protocolli di sicurezza ai seggi – ed il blocco statunitense, che rende difficili tutti gli spostamenti per via della cronica mancanza di carburante per i mezzi di trasporto.

Un chiaro paradosso per un Paese che ha le più grandi riserve petorlifere stimate del Pianeta, ma che a causa dell’embargo statunitense, dall’aprile 2019, imposto sotto l’amministrazione Trump, vive una costante penuria di carburante.

Vogliamo sottolineare innanzitutto due dati generalmente ignorati dai media mainstream.

Il primo è l’allargamento della rappresentanza nell’Assemblea, cioè l’aumento del numero degli eletti (277 seggi, un aumento del 66%), che incrementa la proporzione tra eletti ed elettori (20 milioni di iscritti alle liste elettorali).

Una chiara inversione di tendenza rispetto alle “democrazie occidentali”, che vanno invece verso uno svuotamento anche formale dei propri organi elettivi, e che permette a parti consistenti della società venezuelana di essere rappresentate dentro le istituzioni.

Il secondo è il reiterato tentativo di Maduro, in questo caso vittorioso, di ricondurre una parte dell’opposizione nell’alveo della dialettica democratica istituzionale, disinnescando il potenziale eversivo di una destra che, in forme diverse, si era espressa in maniera violenta e para-golpista negli scorsi anni.

Un’apertura che aveva tra l’altro portato, a fine agosto – con un grande gesto di generosità di Maduro – alla liberazione di un centinaio di cosiddetti “prigionieri politici” e al tentativo di dialogo con l’ex presidente Henrique Capriles. Il quale aveva criticato l’opzione del boicottaggio della destra più oltranzista, ma ha poi deciso di non presentarsi comunque in questa tornata elettorale.

Tra le fila della destra venezuelana, solo i più squallidi pupazzi dell’imperialismo nord-americano ed europeo hanno rifiutato la possibilità di partecipazione a queste elezioni, boicottandole come hanno fatto il golpista Juan Guaido e Leopoldo López – che ora vive in Spagna – a differenza della maggior parte delle varie formazioni della destra, che insieme hanno ottenuto il 18% dei consensi.

Da parte di Guaido si tratta dell’ennesimo “boicottaggio” del processo elettorale, dopo quello dell’Assemblea Costituente nel 2017 e delle elezioni presidenziali del 2018.

L’ex presidente del Parlamento del 2015 ha organizzato da questo lunedì, 7 dicembre, fino al 12 dello stesso mese, una “consultazione popolare” farsa, su cui conta di appoggiarsi per “prorogare il suo mandato”, che scade anche formalmente il 5 gennaio prossimo.

Questo “voto” fittizio si dovrebbe svolgere, secondo ciò che dichiarano gli organizzatori, attraverso Internet o nei circa 7 mila “seggi” allestiti in Venezuela e soprattutto in una ottantina di altri Paesi.

Con sprezzo del ridicolo, l’auto-proclamato “presidente del Venezuela” dal gennaio 2019, “riconosciuto” da una sessantina di Paesi capeggiati dagli Stati Uniti, ha affermato che: «il rifiuto maggioritario del popolo venezuelano è stato evidente (...) Il Venezuela ha girato le spalle a Maduro», chiedendo ulteriori sanzioni per un Paese che già affronta una grave crisi economica.

Un chiaro segnale della volontà dei suoi sponsor politici (USA e UE, in primo luogo) di disconoscere il voto popolare, come dimostrano anche le parole di Mike Pompeo, segretario di Stato Usa con Trump.

La filo-statunitense “Organizzazione degli Stati Americani” ha affermato domenica di non riconoscere la validità di queste elezioni legislative, mentre l’Unione Europea ne aveva in precedenza chiesto il rinvio perché non le riteneva “né trasparenti né credibili”, di fatto disconoscendole.

Una delle poche voci “fuori dal coro” è stata quella dell’ex presidente del governo spagnolo, José Luis Rodriguez Zapatero, recatosi a Caracas come osservatore elettorale. Il socialista spagnolo ha invitato l’UE – che non ha partecipato con propri osservatori al voto – ad una riflessione profonda su una scelta di delegittimazione del processo elettorale da lui ritenuta sbagliata.

Un piccolo ma comunque significativo segnale di future possibili “fratture” nell’establishment politico della “sinistra” continentale.

La coalizione guidata dal PSUV, quindi, ritrova in questo organismo la maggioranza che aveva perso nelle elezioni di cinque anni fa, superando così l’impasse di una istituzione che si era caratterizzata solo per l’ostruzionismo, e non certo per una “opposizione costruttiva”.

Può quindi ora procedere politicamente in una difficilissima situazione economica, ma facendo avanzare nel Paese un processo positivo, anche se minato dalle continue ingerenze esterne e dalle pressioni internazionali.

Come Rete di Comunisti valutiamo questo risultato come la tenuta di una prospettiva di cambiamento, che ha ricadute positive dirette su tutto il continente latino-americano, e che rafforza la possibilità di costruzione di relazioni internazionali che non abbiano al centro gli interessi reazionari delle oligarchie statunitensi ed europee.

Un risultato che va nella direzione auspicata da chi lotta anche qui contro la barbarie di un sistema politico-economico marcio fino al midollo.

Nel corso di questi mesi abbiamo dato vita ad una campagna politica come “Americhe: tra socialismo e barbarie”, che ha dato voce alle ragioni di un continente – innanzitutto Cuba e Venezuela – che non si piega al destino disegnato da USA e da Unione Europea.

Continueremo in questa direzione.

Aqui se no se rinde nadie!

7 dicembre 2020

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