È un Trump con la faccia più tosta del consueto quello che ha agitato tabelle e 400 pagine di ordine esecutivo in conferenza stampa, recitando la parte del “paese saccheggiato” soprattutto dagli alleati storici che si sarebbero approfittati della stolidità dei governi precedenti. “Dazi reciproci” vorrebbe infatti significare che quella americana è una “risposta” ad analoghe tariffe già operanti su e contro le esportazioni statunitensi. Anche se molto raramente ciò è vero.
Solo per fare un esempio veloce, se si considera l’Iva applicata su tutte le merci europee come una “barriera tariffaria” è chiaro che si sta ciurlando nel manico. Perché l’“imposta sul valore aggiunto” (al 21%) viene pagata da tutti – consumatori e imprese, nelle loro forniture reciproche – anche in tutta Europa. Dunque non è e non può essere uno “svantaggio competitivo” per merci e prodotti statunitensi.
Il modo in cui sono state ricavate le percentuali da applicare è però molto più scriteriato di così, al punto da sorprendere persino gli smaliziati analisti del Financial Times:
“Ecco cosa sembrano aver fatto la Casa Bianca e il suo team di investigatori commerciali: prendi il deficit commerciale degli Stati Uniti con un qualsiasi paese in particolare e dividilo per la quantità totale di beni importati da quel paese. Dimezza quella percentuale e ottieni il tasso tariffario ‘reciproco’ degli Stati Uniti. Possiamo confermare che questo corrisponde ai numeri dei primi 24 paesi elencati, che abbiamo controllato a mano perché non ci potevamo credere e anche perché ci rifiutiamo di usare l’IA per qualsiasi cosa”.Sollecitando dunque una reazione davvero scandalizzata in chi vive per affermare il capitalismo occidentale:
“Gli USA... insinuano che tutti i deficit commerciali sono il risultato di pratiche sleali o manipolazione della valuta? E il vantaggio comparato? David Ricardo si starà sicuramente rivoltando nella tomba. E le banane? Non crescono negli USA!”Dettagli a parte – rintracciabili appunto nelle 400 pagine del diktat imperiale – la botta al commercio internazionale è tale da segnare un passaggio d’epoca, con conseguenze in qualche caso devastanti ma anche con aspetti paradossali che vale la pena di accennare, più avanti.
Per restare alle cose di casa nostra “l’Europa” viene trattata come un’area unitaria, senza distinzioni tra i vari paesi, con dazi generali del 20%. Si tratta di dazi su merci e servizi diversi da acciaio, alluminio e automobili per cui erano stati già decise barriere del 25%, in parte già operativi, mentre per le auto sono scattati solo oggi.
Potrebbe sembrare un riconoscimento della entità europea come soggetto anche politicamente autonomo, ma è l’esatto contrario. La riprova formale/diplomatica sta nel fatto che Ursula von der Leyen – responsabile ufficiale dell’Unione Europea – chiede da tempo di poter incontrare “Potus” (President of the United States), ma non le viene neanche risposto. Come una questuante qualsiasi, insomma...
È chiaro dunque che imporre dazi identici a un’area frammentata in quanto a interessi specifici (i paesi membri della UE hanno rapporti commerciali molto diversi con gli Usa per quantità, valore, percentuali di Pil, ecc.) significa incentivare le differenze e inserire un cuneo divisivo fondato non sulle chiacchiere (i presunti “valori condivisi” e altra cialtronerie buone per le cerimonie o i talk show), ma sui profitti.
Gli effetti si vedranno presto, ma le risposte e i commenti dei vari governi europei già ora sono molto differenziati, tra appelli alla “prudenza” e minacce di “vendetta” comunque subordinata a trattative che ancora non sono state aperte. Ne si sa quando potranno esserlo...
A parte Gran Bretagna e Australia, “beneficiate” di dazi minimi al 10%, per il resto del mondo va decisamente peggio. La Cina è colpita con tariffe aggiuntive del 34%, curiosamente identiche a quelle riservate a Taiwan (+32%), cosa che potrebbe generare più sintonie che divergenze tra le “due Cine” (uno dei tanti paradossi di questa strategia statunitense).
Colpite al 49% le merci provenienti dal sud-est asiatico (Cambogia, Vietnam, ecc.), che fin qui erano state “facilitate” nel tentativo di favorirne lo sganciamento rispetto all’economia cinese.
Stessa misura, quasi incomprensibile per “noi europei”, nei confronti del Lesotho (una piccola enclave semi-indipendente all’interno del territorio del Sudafrica), di cui probabilmente Trump ignora persino la collocazione geografica.
Ma potete tranquillamente scorrere il “mattone” firmato ieri sera, qui allegato.
Sul piano politico, si diceva, è la fine certificata di un’epoca chiamata “globalizzazione”, da cui si esce con una frammentazione totale del mercato mondiale. Il tentativo apparente è quello di costringere ogni singolo paese a ricercare rapporti individuali con gli Stati Uniti, ovviamente mettendo a disposizione la possibilità di firmare accordi-capestro molto svantaggiosi.
Ma la reazione generale può facilmente essere anche l’opposto, ossia la ricerca di accordi commerciali migliori che prescindono totalmente dal rapporto individuale con gli Usa. L’esempio recente della triangolazione fin qui impensabile tra Cina, Giappone e Corea del Sud (le tre principali economia asiatiche nel Pacifico) ci sembra piuttosto indicativo di una tendenza che può rapidamente diventare valanga.
Una eventualità del genere, che sarà naturalmente contrastata con ogni mezzo – soprattutto finanziario e militare – da Washington, potrebbe così materializzare un potente boomerang che si abbatte sull’economia Usa.
La quale non è pensabile possa in tempi brevi re-internalizzare le produzioni de-localizzate nell’arco di 80 anni e con più velocità dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Se per le merci di lusso il problema non è drammatico (i dazi possono essere comodamente riassorbiti grazie agli alti margini di profitto dei produttori, e comunque peserebbero marginalmente nelle tasche piene di soldi degli acquirenti abituali di Ferrari e alta moda), per l’infinita lista di merci e servizi a basso costo che “l’America” ha smesso di produrre già da decenni non si vede possibilità di sostituzione in tempi rapidi.
Per esempio, circa venti anni fa WalMart (una catena di grande distribuzione presente capillarmente sul territorio americano, con presenza in ogni sperduto villaggio e con quasi un milione di dipendenti) rappresentava il 12% di tutte le esportazioni cinesi nel mondo. Parliamo di merci che noi troviamo “dal cinese” sotto casa, e che nessuno più produce in Occidente. Men che meno negli Usa...
I giochi sono dunque, a questo punto, tutti aperti. La scommessa dei trumpiani è di restare “king maker” contando sullo strapotere nei rapporti individuali con tutti i paesi del mondo. Ma non è proprio detto che tutto il mondo reagisca accettando di finire sotto il cappio uno alla volta.
E a quel punto si comincia a ragionare sulle possibile alternative. I Brics+ si erano già portati avanti col lavoro, ci sembra...
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