Il posto fisso è “monotono”, dice il premier Monti. Uscita infelice,
forse una provocazione, ma la sostanza del discorso del presidente del
Consiglio a “Matrix” è quasi una banalità: il posto fisso non esiste
più. Il problema è che certe polemiche non provocano altro che la
radicalizzazione dello scontro attorno all’articolo 18 e, forse, fanno
perdere di vista la reale natura dei problemi.
Proviamo a rimettere ordine con Marco Leonardi, docente di economia all’Università Statale di Milano.
Il dibattito attorno all’articolo 18 è sostanziale?
Quello che ha detto Monti, al di là della forma, è un dato di fatto:
non esiste più il posto fisso. Tutti si scandalizzano. Il problema è che
l’articolo 18 è diventato uno slogan, ma in realtà si può cambiarlo “a
pezzetti”.
L’articolo 18 prevede il diritto a essere reintegrati se
ti licenziano senza giusta causa. Facciamo una premessa: se il
licenziamento è di tipo discriminatorio, nessuno in Italia dice che non
deve esserci il reintegro.
Il problema è quando si parla di
“giustificato motivo economico”, cioè quando un’azienda è in crisi.
Qualcuno, come Ichino, dice che i giudici non sono in grado di
valutarlo. Altri sostengono irragionevole il reintegro sul posto di
lavoro, perché di fatto il lavoratore rientrerebbe in un’azienda che non
lo vuole. Altri, come il sottoscritto, dicono che non è possibile
continuare nel quadro dell’incertezza data dal giudizio. Sarebbe cioè
meglio creare diversi livelli di certezza: se ti licenziano, ti devono
offrire una certa cifra; se non l’accetti, puoi andare in giudizio; però
anche tu ti assumi i rischi del giudizio. Invece adesso, dato che il
lavoratore non ha nulla da perdere, va sempre in giudizio. Ma questo non
è ragionevole con i tempi della giustizia italiana.
In
Italia ci sono 4 milioni e 300mila aziende con meno di quindici
dipendenti e 114mila con più di 15. Considerando quindi il fatto che la
maggior parte delle aziende non applica già il reintegro previsto
dall’articolo 18, che peso reale ha questo dibattito?
Attenzione però, dal punto di vista dell’occupazione, nelle aziende con
più di 15 dipendenti lavora la metà dei lavoratori italiani. Per quanto
riguarda i numeri, quindi, parlare di articolo 18 continua ad avere
senso.
Al di là della battuta infelice di Monti sul posto fisso “monotono”, l’impressione è che si continui a vendere la flessibilità come un’opportunità, mentre in fase recessiva significa soprattutto mancanza di prospettive.
È sicuramente vero, ma il problema è questo: se vietiamo il
licenziamento, per quale motivo un imprenditore che vuole far crescere
la propria azienda sopra i 15 dipendenti dovrebbe assumere un lavoratore
a tempo indeterminato? Oggi esistono mille altri modi di assumere una
persona e utilizzerà sicuramente quelli: dalla partita Iva alla nuova
impresa a un euro per i giovani che ha varato il governo Monti. Io,
imprenditore, invece di assumere qualcuno, gli dico di fare l’impresa a
un euro e poi lavora per me come fornitore. Tutto ciò non è illegale,
non si può impedirlo.
È vero che c’è la crisi, è vero che tutti
hanno paura di essere licenziati, ma è anche vero che nessuno ti
assumerà mai se poi ha paura di non poterti mai licenziare.
Bisogna
quindi trovare una soluzione tollerabile per tutti ed è per questo che
lo scontro sull’articolo 18, così com’è, non ha senso. Non si tratta di
dire “sì” o “no”, ma di fare un articolo 18 diverso da prima.
Non è
solo togliere, rinunciare a dei diritti. In Germania hanno fatto un
compromesso ragionevole: il reintegro non c’è più, può essere solo
monetizzato.
In cambio dovrebbero darti gli ammortizzatori
sociali. Però, quando se ne parla, sono gli stessi esponenti del
governo Monti ad aggiungere subito “però non ci sono i soldi”.
Abbiamo pochi ammortizzatori sociali ma abbiamo molta cassa
integrazione, anche quella in deroga per cui i beneficiari non hanno
precedentemente pagato. Quindi abbiamo pochi soldi per gli
ammortizzatori, però ne destiniamo molti a questo tipo di cassa
integrazione, che sarà tolta.
Il punto è che una riforma del lavoro
andrebbe giudicata dalla sua capacità di ampliare sempre più il lavoro a
tempo indeterminato. Se riesce a diminuire l’uso dei contratti a
termine, delle partite Iva finte, e così via. Per rendere più esteso il
lavoro a tempo indeterminato, bisogna renderlo anche un po’ più
flessibile.
Fonte.
Quest'intervista è l'ennesima dimostrazione che la maggioranza degli economisti non capisce un cazzo della propria materia.
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