Uno teneva d’occhio le elezioni del prossimo novembre, l’altro la
propria futura ascesa al punto più alto della leadership, nessuno dei
due poteva sbilanciarsi troppo. E così, l’incontro tra il presidente Usa Barack Obama e il vicepresidente cinese Xi Jinping
si è concluso senza fuochi d’artificio. Neanche la tradizionale
frizione fra due stili diplomatici diametralmente opposti – grandi
formule ed aperture da parte americana, discrezione e lavoro
sottotraccia da quella cinese – ha dato luogo a colpi di scena
memorabili. Tutto è rimandato al futuro, dopo la probabile riconferma
del presidente Usa e la definitiva ascesa di Xi.
Obama ha mandato un segnale alle sue opposizioni interne (e ai cittadini tutti) più che alla Cina,
quando ha ricordato all’interlocutore che il Dragone, nel suo nuovo
status globale, deve seguire “le regole della strada”. Parlava di
commercio naturalmente, e così chi lamenta la perdita di posti di lavoro
Usa per colpa di Pechino è accontentato. Ha poi chiarito che su
questioni cruciali come i diritti umani, Washington avrebbe “continuato a
sottolineare quella che reputiamo l’importanza di realizzare le
aspirazioni e i diritti di tutti gli uomini“. E anche i lamaisti da cocktail party di Hollywood e dintorni sono sistemati.
Xi,
che doveva invece dimostrare la sua capacità nel gestire i rapporti con
il grande amico-nemico senza fargli nessuna concessione, ha subito
espresso l’auspicio che la sua visita “potesse aiutare a migliorare la
comprensione reciproca e ampliare il consenso tra i due Paesi”,
procedendo sul percorso inaugurato dallo stesso Obama e dal presidente
(uscente) Hu Jintao
verso “una partnership cooperativa basata su rispetto reciproco e mutuo
beneficio”. Traducendo dal “cinese”, rafforza la propria candidatura
rivendicando una continuità tra la presidenza Hu e la (eventuale) sua e
ribadendo che la Cina si considera interlocutore alla pari con gli Stati
Uniti.
Xi è poi andato a cena con gli ex segretari di Stato Henry
Kissinger e Madeleine Albright, ai quali ha ulteriormente chiarito:
“Speriamo che gli Stati Uniti riescano a vedere la Cina in maniera
obiettiva e razionale, e adottino misure concrete per promuovere la
fiducia reciproca, soprattutto per gestire correttamente e discretamente
i problemi che riguardano gli interessi fondamentali della Cina”.
L’impressione
è che si andrà avanti con lo stesso copione fino a quando i rapporti di
forza tra le due superpotenze non cambieranno ulteriormente, a
vantaggio dell’una o dell’altra. Gli Usa non possono dismettere la
propria vocazione a incarnare presunti “valori universali” da dispensare
al mondo, pena la fine della propria “missione” e una crisi della
propria identità più profonda.
Pechino non può d’altro canto
permettere che le trasformazioni interne siano dettate da input che
vengono da fuori: le ferite del colonialismo occidentale sono ancora
aperte, mentre lo Stato-partito si gioca tutto nel grande progetto di
far tornare la Cina “Zhong Guo”, il Paese al centro del mondo (più dal
punto di vista economico e morale che militare).
Sembrerebbe che le
opposte strategie siano irriducibili, ma i vincoli della globalizzazione
e i legami tra le due economie suggeriscono formule come la
“partnership cooperativa”. Domani si vedrà.
Fonte.
La costante presenza di Kissinger dietro il sipario è la dimostrazione lampante che l'alternanza politica negli Stati Uniti è una favola per bambini dell'asilo.
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