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16/02/2012

Usa-Cina, Obama e Xi evitano l’autogol

Uno teneva d’occhio le elezioni del prossimo novembre, l’altro la propria futura ascesa al punto più alto della leadership, nessuno dei due poteva sbilanciarsi troppo. E così, l’incontro tra il presidente Usa Barack Obama e il vicepresidente cinese Xi Jinping si è concluso senza fuochi d’artificio. Neanche la tradizionale frizione fra due stili diplomatici diametralmente opposti – grandi formule ed aperture da parte americana, discrezione e lavoro sottotraccia da quella cinese – ha dato luogo a colpi di scena memorabili. Tutto è rimandato al futuro, dopo la probabile riconferma del presidente Usa e la definitiva ascesa di Xi.

Obama ha mandato un segnale alle sue opposizioni interne (e ai cittadini tutti) più che alla Cina, quando ha ricordato all’interlocutore che il Dragone, nel suo nuovo status globale, deve seguire “le regole della strada”. Parlava di commercio naturalmente, e così chi lamenta la perdita di posti di lavoro Usa per colpa di Pechino è accontentato. Ha poi chiarito che su questioni cruciali come i diritti umani, Washington avrebbe “continuato a sottolineare quella che reputiamo l’importanza di realizzare le aspirazioni e i diritti di tutti gli uomini“. E anche i lamaisti da cocktail party di Hollywood e dintorni sono sistemati.

Xi, che doveva invece dimostrare la sua capacità nel gestire i rapporti con il grande amico-nemico senza fargli nessuna concessione, ha subito espresso l’auspicio che la sua visita “potesse aiutare a migliorare la comprensione reciproca e ampliare il consenso tra i due Paesi”, procedendo sul percorso inaugurato dallo stesso Obama e dal presidente (uscente) Hu Jintao verso “una partnership cooperativa basata su rispetto reciproco e mutuo beneficio”. Traducendo dal “cinese”, rafforza la propria candidatura rivendicando una continuità tra la presidenza Hu e la (eventuale) sua e ribadendo che la Cina si considera interlocutore alla pari con gli Stati Uniti.
Xi è poi andato a cena con gli ex segretari di Stato Henry Kissinger e Madeleine Albright, ai quali ha ulteriormente chiarito: “Speriamo che gli Stati Uniti riescano a vedere la Cina in maniera obiettiva e razionale, e adottino misure concrete per promuovere la fiducia reciproca, soprattutto per gestire correttamente e discretamente i problemi che riguardano gli interessi fondamentali della Cina”.

L’impressione è che si andrà avanti con lo stesso copione fino a quando i rapporti di forza tra le due superpotenze non cambieranno ulteriormente, a vantaggio dell’una o dell’altra. Gli Usa non possono dismettere la propria vocazione a incarnare presunti “valori universali” da dispensare al mondo, pena la fine della propria “missione” e una crisi della propria identità più profonda.
Pechino non può d’altro canto permettere che le trasformazioni interne siano dettate da input che vengono da fuori: le ferite del colonialismo occidentale sono ancora aperte, mentre lo Stato-partito si gioca tutto nel grande progetto di far tornare la Cina “Zhong Guo”, il Paese al centro del mondo (più dal punto di vista economico e morale che militare).
Sembrerebbe che le opposte strategie siano irriducibili, ma i vincoli della globalizzazione e i legami tra le due economie suggeriscono formule come la “partnership cooperativa”. Domani si vedrà.

Fonte.

La costante presenza di Kissinger dietro il sipario è la dimostrazione lampante che l'alternanza politica negli Stati Uniti è una favola per bambini dell'asilo.

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