Mentre la Grecia brucia, a Roma impera il fatalismo idiota dei servi. In
Italia gli indignati sono spariti, i forconi si sono ammosciati, le
destre e le sinistre istituzionali banchettano al centro, Napolitano
sermoneggia senza limiti, Monti fa gli inchini alla comunità finanziaria
di Wall Street e si fa dire quando pisciare all’imperialista di velluto
Obama, e lei, nostra signora Bce, con il grande sacerdote Mario Draghi
domina incontrastata.
Teppisti e pecoroni
I pochi, sparuti “teppisti”(1) politici e intellettuali che s’azzardano a
far stecca sul coro gregoriano - laude, laude al dio mercato e alla
divina Eurolandia - e cioè i soliti revanscisti rossi e neri, gli
antagonisti, i signoraggisti, Grillo, Chiesa, i decrescisti, ribelli e
cani sciolti vari sono oscurati o ridicolizzati, come da prassi. La
masse tace, imbelle, pronta al taglio della gola, già essiccata e
afonizzata dalle mazzate torturatrici note come decreto salva-Italia e
decreto cresci-Italia.
Per quale motivo non scoppiano non dico
rivolte, ma almeno focolai di protesta, come sarebbe naturale aspettarsi
contro una tecnocrazia bancaria che aumenta le tasse, fa strame di
diritti sociali e per giunta agita il ditino spiegandoci che la merda
liberista è oro? Lo ha scritto come meglio non si potrebbe il sempre
corrosivo Marco Cedolin (2), e perciò lascio volentieri la parola a lui:
«La ragione in fondo è di una semplicità disarmante. Avete mai visto
dei cittadini andare a protestare, senza essere stati chiamati a farlo
da qualcuno? Che si trattasse di un partito, di un sindacato, di
un’organizzazione, di un movimento o di un comitato, alla base di
qualsiasi protesta c’è sempre stato un soggetto che chiamava il popolo a
raccolta. … Ogni soggetto potenzialmente pericoloso è stato cooptato,
affinché si prodigasse per tenere la gente ermeticamente chiusa in casa,
magari davanti alla Tv, di fronte a qualsiasi decisione venisse presa».
La favoletta della “medicina amara”
Fatta la diagnosi, procedendo all’inverso descriviamo i sintomi della
malattia. Siamo come in una bolla d’ovatta, in cui la realtà che pur
viviamo sulla nostra pelle non è compresa perché filtrata da un
immaginario completamente falsato, manipolato dai chierici
dell’informazione, stravolto da un racconto infantile ammanitoci come
unica verità possibile. Questa: there is no alternative, l’austerity è
una medicina amara contro cui si può scalciare ma che va ingollata. Un
po’ come l’olio di fegato di merluzzo, una tremenda schifezza che un
tempo si credeva salutare, salvo poi scoprire che non serviva a un bel
niente. Oggi, con le supposte prescritte dal dottor Monti è molto
peggio: non soltanto non fanno il nostro bene, ma hanno il criminale
difetto di legarci alla catena del mondo globalizzato e dei suoi
poderosi business privati. Ci ammazzano di tagli e sacrifici e ci dicono
che lo fanno per il nostro bene. Monti e i banksters come novelli
Torquemada, la nuova inquisizione sub specie Europae.
Eppure capire dove sta l’inganno non è difficile, basta compiere un
comune ragionamento di do ut des, solo spostandolo dal piano individuale
a quello collettivo. Quando ciascuno di noi mira ad un obiettivo e
questo comporta una serie di sforzi e privazioni, accettiamo di
sopportarne il peso se esso ci è chiaro e siamo certi che costituirà un
vantaggio palpabile, concreto – e non solo in termini pratici e di
tornaconto, ma anche, dio voglia, ideali, nobili. Sacri, appunto.
L’etica del sacrificio è doverosa. Non così la retorica, che è retorica
appunto perché il sacro per cui ci si sacrifica non è sacro per niente, e
non assicura alcuna convenienza, nessun ritorno di maggior benessere,
economico o esistenziale che sia. E questo è il caso dell’imperativo
categorico che non da oggi, ma da decenni, per lo meno da quando abbiamo
i calzoni corti noi che siamo trentenni, i signori del denaro e i loro
maggiordomi dei partiti ci fanno passare come inderogabile,
immarcescibile, indefettibile: stringere la cinghia, che per molti
significa far la fame per un miraggio chiamato “crescita”. Questa
benedetta crescita non è mai abbastanza, perché per sua interna logica
non ha mai fine, è senza posa, infinita. E così lo diventano anche i
torchiamenti, fiscali, lavorativi, sociali a cui veniamo sottoposti
dagli illuminati che la sanno sempre più lunga – perché loro capiscono e
interpretano per i mortali il verbo delle agenzie di rating, delle
banche centrali e di quei benefattori disinteressati e puri di cuore che
fanno il bello e il cattivo tempo nelle piazze borsistiche. Siamo
schiavi rassegnati ad esserlo e illusi di non esserlo, e questo è tutto.
Reich europeo
Il tabù Europa è un caso da manuale. Ci avevano raccontato, i sapienti
europeisti, che l’unione degli Stati del vecchio e caro continente
doveva realizzarsi a tutti i costi, ma proprio a tutti, pena un ritorno
alle guerre e chissà quali altre immani catastrofi. Risultato: non c’è
stata alcuna effettiva federazione politica, bensì un’operazione di
eugenetica istituzionale che ha messo una facciata di pseudo-democrazia
(il parlamento-parlatoio di Strasburgo, la commissione-specchietto per
le allodole di Bruxelles) ad un sostanziale e illegale potere legibus
solutus della Banca Centrale di Francoforte, in stato di minorità
rispetto all’omologa Fed americana e terminale degli interessi dei
grandi istituti di credito e d’affari, specialmente tedeschi. I trattati
che hanno costruito l’edificio di cartapesta eurocratico ne hanno
modellato i contorni secondo un progetto fatto su misura per le esigenze
e le idiosincrasie della Germania. Perciò, economie e società come
quella italiana o spagnola, ma anche della stessa Francia, diverse –
grazie al cielo – dal rigorismo matematico e ragionieristico di Berlino,
sono state letteralmente violentate, costrette ad adeguarsi a politiche
di bilancio e del fisco che non collimavano con i propri bisogni, ma
con quelli del Reich finanziario. Amato, Ciampi, Prodi – ma mettiamoci
dentro pure il Berlusca, che opposizione all’eurocrazia non ne ha fatta
mai, vedi ratifica plebiscitaria dell’esiziale Trattato di Lisbona, anno
2007 – erano tutti entusiasti nell’operare alacremente per fare
dell’Italia un paese economicamente e politicamente subalterno alla
Grande Germania, condannandolo ad una vita di dolori senza una degna
contropartita. Questa violenza ha un nome preciso: euro, la moneta col
debito intorno. Bell’affare abbiamo fatto, mentecatti europeisti senza
se e senza ma… Le fiamme e i saccheggi della Grecia disperata non
insegnano nulla, benché avrebbero molto da dirci, poiché la cura omicida
che ha fatto stramazzare e impazzire il cavallo ellenico è la stessa
che propinano a noi, con tanto di inviati dell’Fmi a monitorare – leggi:
controllare, non si sa mai – le scelte del duo Monti-Napolitano. Ma si
vede che bisogna proprio giungere a non avere più niente da perdere nel
vero senso della parola, per alzare la testa e guardare agli esempi di
un’altra via – all’Argentina, all’Islanda, al Venezuela, o almeno alla
Gran Bretagna e alla Danimarca, che nell’Ue sono presenti ma si sono ben
guardate dall’adottare la moneta unica.
L’articolo dei cretini
E se anche questo non basta e volete una prova del pecorismo italiano
che più prova non si può, si consideri il tema che fa da padrone
nell’agenda setting nazionale: l’articolo 18 dello Statuto dei
Lavoratori, che tutela le maestranze delle aziende con più di 15 di
dipendenti dal licenziamento senza giusta causa. C’è un arco
costituzionale di pensiero che va da chi vorrebbe abolirlo tout court
(un ex ministro Sacconi che si dice ancora socialista pur essendosi
tramutato in un ircocervo, mezzo liberista e mezzo catto-talebano) a chi
lo vorrebbe modificato senza troppi fondamentalismi, ammettendone
comunque la sostanza, che è la possibilità di licenziare per sole cause
economiche, ovvero a discrezione dell’imprenditore (un Damiano della
sinistra Pd, per capirci). Ora, sinceramente ci appassiona poco il
dibattito che si è riattizzato dopo il vittorioso muro che eresse la
Cgil di Cofferati nel 2001. È sommamente cretino fissarsi su questo
punto, ancorchè altamente simbolico – e i simboli in politica contano
parecchio – se poi si lascia correre il bulldozer turbo-liberista a
schiacciare tutto ciò che incontra. Voglio dire: che senso ha
incaponirsi su un articolo di uno statuto superato e che fa acqua da
tutte le parti quando la diga è già rotta da quel dì, dal pacchetto Treu
(centrosinistra, 1996) e dalla legge Biagi-Maroni (centrodestra, 2000)?
Invece di stare sempre sulla difensiva, la sinistra sindacale dovrebbe
giocare d’iniziativa e proporre un sistema di relazioni contrattuali
completamente rinnovato. Ma per far questo dovrebbe esistere una
sinistra politica degna di questo nome, cioè dotata di una cultura
teorica. Discutere di decrescita volontaria, economia locale e sovranità
monetaria è come parlare arabo, con gente come la Camusso, ma anche
come Landini o Cremaschi, industrialisti di tre cotte. Su questo, come
sanno i nostri lettori, abbiamo abbandonato ogni speranza da anni: la
sinistra non soltanto è un esempio preclaro di imbecillità, ma
oltretutto è pappa e ciccia col padrone, sia consapevolmente quando lo
professa in tutta la sua plateale ingenuità (sto parlando di quella cosa
denominata Pd), sia quando si ammanta di ultra-conservatorismo retorico
da un lato e rivoluzionarismo parolaio e fuori tempo dall’altro (la
poetica vendoliana, le pippe vetero-marxiste dei residuali partitini
falce e martello).
Vorrei essere greco
Ci sarebbe da dire due parole anche sulla religione che issa la Nato e
l’alleanza-sudditanza agli Usa come totem intoccabili ed eterni quando
invece sono in rovinoso declino (la sconfitta in Afghanistan contro i
Taliban ne è l’emblema), ma mi fermo qui, esausto. Dico solo che vorrei
essere argentino, islandese, venezuelano, persino afgano o anche greco,
ma italiano no, italiano non vorrei esserlo più. Ma tant’è. L’arma che
so usare, la penna, la uso comunque per la mia idea d’Italia e di mondo
anche se i miei compatrioti dormono il sonno dei beoti. Aristofane:
«Chiunque è un uomo libero non può starsene a dormire».
Note
1. Scriveva Giuseppe Prezzolini a proposito della “Settimana rossa” nel
1914: «Si possono fare rivoluzioni senza “teppa”? Non lo crediamo. Le
rivoluzioni non si fanno né con gli studiosi, né con la gente in guanti
bianchi. Un teppista conta più d’un professore d’università quando si
tratta di tirar su una barricata o di sfondare la porta d’una banca. (…)
Con la “gente per bene” il mondo non andrebbe avanti. E se talora è
necessario uno strappo, una violenza (“la violenza è la matrice delle
nuove società”, disse Marx, e il culto della violenza ci è stato
insegnato da Sorel), chi chiameremo a compierla? (…) Un idealista non
deve considerarle [le torbide forze che parlano coll’incendio e colla
distruzione] come un borghese chiuso nelle quattro assi di quella bara
che è suo interesse particolare. (…) la “teppa” di ieri è la nobiltà di
oggi. La “teppa” di oggi potrebb’essere la nobiltà di domani», La Voce,
giugno 1914.
2. M. Cedolin, “Cambieremo il modo di vivere degli italiani”, 9 febbraio
2012
http://ilcorrosivo.blogspot.com/2012/02/cambieremo-il-modo-di-vivere-degli.html
Fonte.
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