Roma. Nell'ovattata sala conferenze dell'Ara Pacis, con le poltroncine d'acero bianco disegnate dall'archistar Richard Meier detestato da Gianni Alemanno, si tiene una conferenza dal titolo horror: «La Cina comprerà l'Europa?».
Economisti, geopolitici e strateghi vari discutono sul se e sul come
Pechino entrerà nel Fondo europeo «salva-stati», con in testa l'antico
avvertimento di non fidarsi degli stranieri che portano doni.
L'ambasciatore Ding Wei rassicura: «Amo molto il vostro
paese, la vostra civiltà». Il sindaco di Roma annuisce piegando
deferente il capo. Al termine dei saluti di rito il primo cittadino
della Città Eterna se ne va a bordo di un modesto Subaru. Il
rappresentante del Celeste Impero invece si congeda su una Bmw 730 nera
che somiglia a uno squalo.
Scenetta eloquente. Perché noi pensiamo ancora che dovrebbero
essere loro a inchinarsi, ma ci è anche chiaro che è un pensiero che non
possiamo più permetterci. Sono immigrati, ma figli di una
superpotenza. Lavoratori instancabili, che spesso vivono da poveracci.
Miti, ma da non provocare. Più che una comunità, un ossimoro vivente. Oltreché magnete potentissimo di pregiudizi e leggende
nere, dall'evasione totale ai cani serviti nei ristoranti. Il mistero
più incomprensibile, però, resta questo: con 3,2 trilioni di dollari in
riserve estere non potrebbero, se non il Vecchio continente, comprarsi
almeno un buon ufficio stampa?
Seconda scena. Siamo in uno studio televisivo de La7. Lo spunto per parlare di cinesi è un anniversario triste. È passato un mese da quando sono stati uccisi a Roma, in una rapina, Zhou Zheng e la figlioletta Joy.
All'indomani del duplice omicidio in altre trasmissioni i cinesi sono
diventati gli accusati: «Come mai portate in tasca così tanti soldi?».
Stavolta da piazza Vittorio (Emanuele), centro della Chinatown romana, è
collegato Augusto Carratelli, presidente del Comitato
Difesa Roma Caput Mundi («perché l'Esquilino è il triangolo della
cristianità»). Prima dice che il quartiere è «invaso». Un attimo dopo
che ci vivono «23 mila italiani e circa cento cinesi». L'ingegnere Marco Wong,
fondatore di Associna, l'associazione delle seconde generazioni, è
troppo educato per far notare la contraddizione. L'assessore alla
sicurezza di Prato Aldo Milone ci mette il carico:
«Hanno fatto così anche da noi. Con strategia militare hanno strapagato
le case dei pratesi per poi rimanere solo loro». La conduttrice Myrta Merlino
non trattiene il sorriso: «Beh, militare... è il mercato bellezza: se
pagano bene dov'è il problema?». È l'obiezione che, di lì a pochi
secondi, ripete un commerciante dell'Esquilino: «Venderei anche domani
se mi facessero una buona offerta!». Carratelli ne fa però una questione
di italianità. Nessuno gli ricorda che sino al 2000, quando
ancora c'era il mercato all'aperto, le case del rione valevano 1500-2000
euro al metro quadrato mentre oggi si aggirano sui 5000. Immobiliarmente parlando i cinesi hanno coinciso con la gentrificazione dell'area, non con il suo degrado.
È comprensibile che i vecchi proprietari rimpiangano il forno e la
merceria della gioventù, ma qualcuno dovrebbe spiegar loro che non è neppure malaccio, con i tempi che corrono, che il loro appartamento adesso valga il doppio o il triplo.
Il pratese Milone si scalda sempre più, dice che hanno distrutto un ex
distretto fiorente e non sanno cosa siano le tasse. Dimentica che il suo
sindaco Roberto Cenni, proprietario della catena di
abbigliamento Sasch, negli stessi giorni in cui provava a fare dei
cinesi locali i capri espiatori della crisi del tessile, aveva già delocalizzato tutta la produzione in Cina. E che, mentre accusa i suoi cittadini asiatici di evadere le tasse, è indagato per bancarotta fraudolenta.
Stando al presunto record di allergia alle imposte, parlando di
verifiche relative al 2007, l'allora direttore provinciale dell'Agenzie
delle entrate Leonardo Zammarchi mi spiegava che «su 627 casi italiani sono stati riscontrati 90 evasori totali mentre, tra i cinesi, 18 su 130».
Ovvero circa lo stesso 14 per cento. La differenza è che, da allora, la
nuova giunta sembra aver prima triplicato e poi sestuplicato i
controlli, ma solo sugli orientali. La linea torna a piazza Vittorio, in
tempo perché un'intirizzita vicequestore Rossella Matarazzo
riesca a dire che «i reati sono in calo».
E allora andiamolo a vedere questo quartiere multietnico che per la
polizia è un posto tranquillo e per i leghisti e i vestali dell'antica
Roma l'inizio della fine.
Terza scena. La mia guida è Hu Lanbo,
direttrice del mensile bilingue Cina in Italia, sposata da sempre con un
italiano, due figli studenti universitari che immaginano un futuro
migliore a Pechino che a Roma. Ci vediamo nel negozietto di cappelli
di una sua amica che, per facilitare i compiti ai nostri connazionali,
si fa chiamare Paola. Importa tutto dalla madrepatria ma i suoi margini
sono sempre più stretti: «I salari laggiù sono molto cresciuti e ormai lavoriamo quasi in perdita».
Qui la globalizzazione non è teoria o opzione ideologica, ma la
questione praticissima di arrivare o meno alla fine del mese. Lei e la
famiglia del figlio, sei persone in totale, vivono sulla periferica
Casilina perché non possono permettersi questa zona. In mezz'ora entrano
cinque clienti, stranieri perlopiù. E il registratore di cassa si apre
ogni volta. «Scontrini di civiltà», riciclando il
titolo di una mostra di Sant'Egidio sul rispetto delle regole da parte
degli immigrati. Paola dice che sua figlia è già stata rapinata una
volta e ora ha paura quando rientra a casa.
Il perché di tanti contanti ce lo spiega Daniele Wong, che ha un'agenzia immobiliare sotto i portici della piazza. «La
nostra è una comunità di commercianti e con tutti gli assegni a vuoto
che ci hanno rifilato c'è gente che potrebbe tappezzare le pareti.
Aggiungete che molti fornitori, in Cina, pretendono di essere pagati via
money transfer. Sembra assurdo, ma che possiamo fare?». Lui, ovviamente, ha il conto in banca e usa i bonifici.
Ma è anche una terza generazione. Nato a Bologna, cresciuto a Firenze, ci conosce più che abbastanza per apprezzare l'ipocrisia. «Ma
i cinesi che cuciono per le aziende della moda, come spiega Gomorra, e
che secondo le autorità pratesi sarebbero tutti evasori, a chi vendono?
Agli italiani. Se facessero fattura, il nero non ci sarebbe».
La stessa obiezione che si potrebbe fare a un'inchiesta della Finanza
che ha scoperto centinaia di cinesi con licenze false
per la vendita di alimentari. È un reato, vanno puniti. Come il
commercialista padovano e il ragioniere veneziano che vendevano loro i
certificati. Ma nelle riprese nascoste dello scambio gli italiani sono
pixelati e i cinesi no.
Più che le categorie della sociologia qui sono utili quelle della psichiatria. In particolare la dissociazione, un meccanismo di difesa che scatta davanti a situazioni traumatiche tra i cui possibili sintomi c'è «l'incapacità di riconoscersi allo specchio». È sempre Wong a risvegliarci dalle fantasie: «Ma gli italiani davvero non si ricordano quando gli immigrati erano loro?
Mi vengono in mente film come Bello, onesto, emigrato Australia
sposerebbe compaesana illibata. Lì Alberto Sordi, per mettere i soldi da
parte, non si permette neanche un caffè al bar. Oppure Pane e
cioccolata in cui, a forza di sentirsi ripetere dagli svizzeri velenosi
pregiudizi, Manfredi decide di dar loro ragione, facendo pipì per
strada».
A poche centinaia di metri, in una via che incrocia la piazza, c'è un' erboristeria macchina-del-tempo che ricorda quella magica cui si rifornisce l'Alice di Woody Allen. La dottoressa Wang,
con una laurea non riconosciuta, si limita a vendere prodotti
fitoterapici, aghi da agopuntura e a dispensare consigli. L'unica
dipendente è Chiara Alessandrini, soddisfattissima
neolaureata in cinese che, oltre a un salario, sfrutta l'occasione rara
di migliorare la lingua, in attesa di più proficue destinazioni. Perché,
come sembra sfuggire al difensore del Caput Mundi, l'Italia non è esattamente la prima scelta per chi cerca lavoro.
Chi può giocarsi la carta cinese, se la gioca. Come conferma anche una
sosta a Europa 2000, agenzia viaggi che lavora con la comunità, su un
altro lato della piazza. «Solo oggi ho fatto dieci biglietti d'aereo per la Cina. Di sola andata» spiega la titolare Lilli, orgogliosa della sua Alfa Mito rossa, «è un fenomeno nuovo, in crescita. E credo che se i cinesi se ne andassero per il quartiere sarebbe un gran danno».
Non è una minaccia, ma una constatazione. Poco lontano, per la prima
volta, sbuca una vetrina vuota con ideogrammi che significano
«affittasi».
Basterebbe provare a contestualizzare. Una bella agenzia di pubbliche
relazioni potrebbe aiutare. Provo a parlarne con l'ambasciatore che mi
affida al consigliere che parla meglio italiano, Yao Cheng.
«Un mese fa abbiamo incontrato le autorità di Prato. Smentito i loro
pregiudizi. Ma il giorno dopo già dimenticano». Per quanto riguarda
l'ipotesi soft power, per vincere i cuori e le menti dei sospettosi
italiani, è scettico: «Io dico, ma loro non credono. C'è una
ventina di giornalisti che scrive solo seguendo i propri pregiudizi. Io
dico bianco, loro scrivono rosso. E allora a che serve campagna di
informazione?».
C'è molto fatalismo confuciano in questa resa, come del tipo che aspetta
sul ciglio del fiume di veder scorrere il cadavere del nemico. Però
anche un'incapacità di fornire dati concreti, controargomenti, che sorprende in un popolo così pragmatico.
La buttano in filosofia («diversa cultura, diversa mentalità»), ma
tanto vaga che sembra presa dai biscotti della fortuna. Loro avrebbero
bisogno di una buona agenzia di pr. Noi di una squadra di psicoterapeuti
che ci ricordi come, solo poche settimane fa, sembravamo eccitatissimi
sull'ipotesi che il loro fondo sovrano intervenisse sul nostro debito. Scongiurare il default val bene Pechino, però non a giorni alterni.
Fonte.
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