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18/02/2012

I cinesi ci spaventano, tranne in caso di default

Roma. Nell'ovattata sala conferenze dell'Ara Pacis, con le poltroncine d'acero bianco disegnate dall'archistar Richard Meier detestato da Gianni Alemanno, si tiene una conferenza dal titolo horror: «La Cina comprerà l'Europa?». Economisti, geopolitici e strateghi vari discutono sul se e sul come Pechino entrerà nel Fondo europeo «salva-stati», con in testa l'antico avvertimento di non fidarsi degli stranieri che portano doni. L'ambasciatore Ding Wei rassicura: «Amo molto il vostro paese, la vostra civiltà». Il sindaco di Roma annuisce piegando deferente il capo. Al termine dei saluti di rito il primo cittadino della Città Eterna se ne va a bordo di un modesto Subaru. Il rappresentante del Celeste Impero invece si congeda su una Bmw 730 nera che somiglia a uno squalo.
Scenetta eloquente. Perché noi pensiamo ancora che dovrebbero essere loro a inchinarsi, ma ci è anche chiaro che è un pensiero che non possiamo più permetterci. Sono immigrati, ma figli di una superpotenza. Lavoratori instancabili, che spesso vivono da poveracci. Miti, ma da non provocare. Più che una comunità, un ossimoro vivente. Oltreché magnete potentissimo di pregiudizi e leggende nere, dall'evasione totale ai cani serviti nei ristoranti. Il mistero più incomprensibile, però, resta questo: con 3,2 trilioni di dollari in riserve estere non potrebbero, se non il Vecchio continente, comprarsi almeno un buon ufficio stampa?

Seconda scena. Siamo in uno studio televisivo de La7. Lo spunto per parlare di cinesi è un anniversario triste. È passato un mese da quando sono stati uccisi a Roma, in una rapina, Zhou Zheng e la figlioletta Joy. All'indomani del duplice omicidio in altre trasmissioni i cinesi sono diventati gli accusati: «Come mai portate in tasca così tanti soldi?». Stavolta da piazza Vittorio (Emanuele), centro della Chinatown romana, è collegato Augusto Carratelli, presidente del Comitato Difesa Roma Caput Mundi («perché l'Esquilino è il triangolo della cristianità»). Prima dice che il quartiere è «invaso». Un attimo dopo che ci vivono «23 mila italiani e circa cento cinesi». L'ingegnere Marco Wong, fondatore di Associna, l'associazione delle seconde generazioni, è troppo educato per far notare la contraddizione. L'assessore alla sicurezza di Prato Aldo Milone ci mette il carico: «Hanno fatto così anche da noi. Con strategia militare hanno strapagato le case dei pratesi per poi rimanere solo loro». La conduttrice Myrta Merlino non trattiene il sorriso: «Beh, militare... è il mercato bellezza: se pagano bene dov'è il problema?». È l'obiezione che, di lì a pochi secondi, ripete un commerciante dell'Esquilino: «Venderei anche domani se mi facessero una buona offerta!». Carratelli ne fa però una questione di italianità. Nessuno gli ricorda che sino al 2000, quando ancora c'era il mercato all'aperto, le case del rione valevano 1500-2000 euro al metro quadrato mentre oggi si aggirano sui 5000. Immobiliarmente parlando i cinesi hanno coinciso con la gentrificazione dell'area, non con il suo degrado.

È comprensibile che i vecchi proprietari rimpiangano il forno e la merceria della gioventù, ma qualcuno dovrebbe spiegar loro che non è neppure malaccio, con i tempi che corrono, che il loro appartamento adesso valga il doppio o il triplo. Il pratese Milone si scalda sempre più, dice che hanno distrutto un ex distretto fiorente e non sanno cosa siano le tasse. Dimentica che il suo sindaco Roberto Cenni, proprietario della catena di abbigliamento Sasch, negli stessi giorni in cui provava a fare dei cinesi locali i capri espiatori della crisi del tessile, aveva già delocalizzato tutta la produzione in Cina. E che, mentre accusa i suoi cittadini asiatici di evadere le tasse, è indagato per bancarotta fraudolenta. Stando al presunto record di allergia alle imposte, parlando di verifiche relative al 2007, l'allora direttore provinciale dell'Agenzie delle entrate Leonardo Zammarchi mi spiegava che «su 627 casi italiani sono stati riscontrati 90 evasori totali mentre, tra i cinesi, 18 su 130». Ovvero circa lo stesso 14 per cento. La differenza è che, da allora, la nuova giunta sembra aver prima triplicato e poi sestuplicato i controlli, ma solo sugli orientali. La linea torna a piazza Vittorio, in tempo perché un'intirizzita vicequestore Rossella Matarazzo riesca a dire che «i reati sono in calo». E allora andiamolo a vedere questo quartiere multietnico che per la polizia è un posto tranquillo e per i leghisti e i vestali dell'antica Roma l'inizio della fine.

Terza scena. La mia guida è Hu Lanbo, direttrice del mensile bilingue Cina in Italia, sposata da sempre con un italiano, due figli studenti universitari che immaginano un futuro migliore a Pechino che a Roma. Ci vediamo nel negozietto di cappelli di una sua amica che, per facilitare i compiti ai nostri connazionali, si fa chiamare Paola. Importa tutto dalla madrepatria ma i suoi margini sono sempre più stretti: «I salari laggiù sono molto cresciuti e ormai lavoriamo quasi in perdita». Qui la globalizzazione non è teoria o opzione ideologica, ma la questione praticissima di arrivare o meno alla fine del mese. Lei e la famiglia del figlio, sei persone in totale, vivono sulla periferica Casilina perché non possono permettersi questa zona. In mezz'ora entrano cinque clienti, stranieri perlopiù. E il registratore di cassa si apre ogni volta. «Scontrini di civiltà», riciclando il titolo di una mostra di Sant'Egidio sul rispetto delle regole da parte degli immigrati. Paola dice che sua figlia è già stata rapinata una volta e ora ha paura quando rientra a casa.

Il perché di tanti contanti ce lo spiega Daniele Wong, che ha un'agenzia immobiliare sotto i portici della piazza. «La nostra è una comunità di commercianti e con tutti gli assegni a vuoto che ci hanno rifilato c'è gente che potrebbe tappezzare le pareti. Aggiungete che molti fornitori, in Cina, pretendono di essere pagati via money transfer. Sembra assurdo, ma che possiamo fare?». Lui, ovviamente, ha il conto in banca e usa i bonifici.
Ma è anche una terza generazione. Nato a Bologna, cresciuto a Firenze, ci conosce più che abbastanza per apprezzare l'ipocrisia. «Ma i cinesi che cuciono per le aziende della moda, come spiega Gomorra, e che secondo le autorità pratesi sarebbero tutti evasori, a chi vendono? Agli italiani. Se facessero fattura, il nero non ci sarebbe». La stessa obiezione che si potrebbe fare a un'inchiesta della Finanza che ha scoperto centinaia di cinesi con licenze false per la vendita di alimentari. È un reato, vanno puniti. Come il commercialista padovano e il ragioniere veneziano che vendevano loro i certificati. Ma nelle riprese nascoste dello scambio gli italiani sono pixelati e i cinesi no.

Più che le categorie della sociologia qui sono utili quelle della psichiatria. In particolare la dissociazione, un meccanismo di difesa che scatta davanti a situazioni traumatiche tra i cui possibili sintomi c'è «l'incapacità di riconoscersi allo specchio». È sempre Wong a risvegliarci dalle fantasie: «Ma gli italiani davvero non si ricordano quando gli immigrati erano loro? Mi vengono in mente film come Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata. Lì Alberto Sordi, per mettere i soldi da parte, non si permette neanche un caffè al bar. Oppure Pane e cioccolata in cui, a forza di sentirsi ripetere dagli svizzeri velenosi pregiudizi, Manfredi decide di dar loro ragione, facendo pipì per strada».
A poche centinaia di metri, in una via che incrocia la piazza, c'è un' erboristeria macchina-del-tempo che ricorda quella magica cui si rifornisce l'Alice di Woody Allen. La dottoressa Wang, con una laurea non riconosciuta, si limita a vendere prodotti fitoterapici, aghi da agopuntura e a dispensare consigli. L'unica dipendente è Chiara Alessandrini, soddisfattissima neolaureata in cinese che, oltre a un salario, sfrutta l'occasione rara di migliorare la lingua, in attesa di più proficue destinazioni. Perché, come sembra sfuggire al difensore del Caput Mundi, l'Italia non è esattamente la prima scelta per chi cerca lavoro. Chi può giocarsi la carta cinese, se la gioca. Come conferma anche una sosta a Europa 2000, agenzia viaggi che lavora con la comunità, su un altro lato della piazza. «Solo oggi ho fatto dieci biglietti d'aereo per la Cina. Di sola andata» spiega la titolare Lilli, orgogliosa della sua Alfa Mito rossa, «è un fenomeno nuovo, in crescita. E credo che se i cinesi se ne andassero per il quartiere sarebbe un gran danno». Non è una minaccia, ma una constatazione. Poco lontano, per la prima volta, sbuca una vetrina vuota con ideogrammi che significano «affittasi».

Basterebbe provare a contestualizzare. Una bella agenzia di pubbliche relazioni potrebbe aiutare. Provo a parlarne con l'ambasciatore che mi affida al consigliere che parla meglio italiano, Yao Cheng. «Un mese fa abbiamo incontrato le autorità di Prato. Smentito i loro pregiudizi. Ma il giorno dopo già dimenticano». Per quanto riguarda l'ipotesi soft power, per vincere i cuori e le menti dei sospettosi italiani, è scettico: «Io dico, ma loro non credono. C'è una ventina di giornalisti che scrive solo seguendo i propri pregiudizi. Io dico bianco, loro scrivono rosso. E allora a che serve campagna di informazione?».
C'è molto fatalismo confuciano in questa resa, come del tipo che aspetta sul ciglio del fiume di veder scorrere il cadavere del nemico. Però anche un'incapacità di fornire dati concreti, controargomenti, che sorprende in un popolo così pragmatico. La buttano in filosofia («diversa cultura, diversa mentalità»), ma tanto vaga che sembra presa dai biscotti della fortuna. Loro avrebbero bisogno di una buona agenzia di pr. Noi di una squadra di psicoterapeuti che ci ricordi come, solo poche settimane fa, sembravamo eccitatissimi sull'ipotesi che il loro fondo sovrano intervenisse sul nostro debito. Scongiurare il default val bene Pechino, però non a giorni alterni.

Fonte.

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