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21/02/2012

Tra Berlino e Washington

Commettiamo un errore di prospettiva quando scrutiamo la politica della Germania in un'ottica tutta europea. Nel senso che europeo è il terreno di manovra, ma mondiale è la posta in gioco. Lo si può constatare meglio se l'andamento della crisi lo si osserva non da Roma o Parigi (o persino da Londra), bensì da Washington. Gli Stati Uniti non hanno infatti dimenticato la mancata adesione tedesca, questa primavera, alla campagna Nato contro la Libia. All'epoca nessuno provò a riflettere su cosa implicasse quel gesto che nel passato sarebbe stato inimmaginabile. È vero che nel 2003 Gerhard Schröder si era dissociato dall'invasione dell'Iraq, ma lo aveva fatto insieme alla Francia, in nome di una posizione comune. Stavolta invece la Germania di Angela Merkel si smarcava proprio dai suoi partner europei.
Quel gesto lasciò trapelare, per la prima volta in modo palese, la nuova assertività della Cancelleria tedesca. Mostrò altresì che le critiche che i responsabili tedeschi da due anni non risparmiavano al capitalismo statunitense, non erano le solite ostentazioni da primo della classe che alza la mano per dire alla maestra che lui lo sapeva già. O almeno non erano solo questo.
Certo, Berlino è stata presa alla sprovvista dalla crisi finanziaria quanto tutte le altre capitali, e lo dimostrano i massicci aiuti di cui necessitarono le banche tedesche a cavallo del 2008-2009. Ma a poco a poco sulla Sprea ci si convinse che la crisi poteva essere sfruttata per conseguire infine quel che, dalla caduta del muro di Berlino (1989), rimane l'obiettivo primario di tutti i cancellieri tedeschi, quale che sia il loro colore politico perché su questo punto l'accordo dell'establishment politico tedesco è totale, e bipartisan. L'obiettivo è la reinserzione a pieno titolo della Germania nel novero delle grandi potenze planetarie, ovvero l'abrogazione totale dell'ordine uscito dalla seconda guerra mondiale e dagli accordi di Potsdam (1945).
Infatti, per capire la gestione tedesca dell'attuale crisi cosiddetta «dei debiti sovrani», bisogna tenere a mente che se oggi c'è l'euro è perché nel 1990 François Mitterrand lo pose come condizione per consentire alla riunificazione tedesca: l'euro è cioè l'ultima espressione dell'ordine mondiale post-bellico.
Una Germania unita e sganciata dall'Europa era troppo potente e troppo pericolosa per i suoi vicini. Il presidente francese pensava perciò di imprigionarla in una forzosa solidarietà europea, nella camicia di forza di una moneta comune. Ma che i tedeschi avessero una propria agenda lo si vide fin dai primi anni '90 dalla fretta (a volte improvvida) con cui Berlino spinse per l'allargamento a est dell'Unione europea, come per crearsi un hinterland con cui bilanciare il resto dell'Europa.
Perciò non dimentichiamo mai che l'euro è sentito dalla Germania come l'ultimo diktat derivato dalla sconfitta, come una prigione, cioè proprio quello per cui era stato pensato. Non è difficile perciò immaginare che i tedeschi provino una vera e propria Schadenfreude (termine che meravigliosamente sintetizza la 'gioia provata per le disavventure altrui') quando l'euro si ritorce contro chi l'aveva imposto e da camicia di forza della potenza tedesca diventa invece l'arma di punta del suo arsenale economico-finanziario.
Infatti da qualche tempo a Washington si sono convinti che l'aggravarsi della crisi del debito sia stata accolta da Berlino come un'opportunità da sfruttare. Come ha detto un esperto tedesco di un centro studi di Washington al New York Times: «La Germania aveva un interesse o un vantaggio strategico nel lasciare che la crisi nell'Unione europea giungesse alla soglia perché la Francia fosse disposta a quella cessione di sovranità cui il paese aveva sempre resistito».
Con la loro forza nell'euro i tedeschi stanno chiarendo che il duopolio franco-tedesco nell'area euro è in realtà un monopolio germanico (incombe però sempre il fatto che la Francia è una potenza nucleare - altro portato della seconda guerra mondiale - mentre la Germania no).
Ma in gioco non è solo la secolare querelle tra Parigi e Berlino, ci sono anche i rapporti con Washington e la spinosa questione del seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza. Lo si vede dalla veemenza con cui gli Usa spingono la Germania ad allentare i cordoni della borsa per salvare l'euro, tanto che perfino un filoamericano come Giscard d'Estaing la considera «indebita ingerenza Usa negli affari interni europei». Lo dimostra l'apparentemente infruttuoso «giro delle sette chiese europee» del ministro del Tesoro Usa, Tim Geitner, della settimana scorsa.
Barack Obama è spinto non solo da ragioni a breve termine: se la crisi dell'euro si acuisce, e se la Germania insiste nello spingere tutto il vecchio continente a draconiane politiche di austerità, il mondo intero si avvia verso una seconda recessione, molto più grave di quella iniziata nel 2008 e allora Obama potrebbe dire addio alla speranza di essere rieletto presidente tra meno di un anno.
La ragione vera è che la Germania sta negoziando un nuovo status internazionale in cambio del salvataggio dell'euro. Lo si evince dalla relativa inerzia con cui si sta muovendo il Fondo monetario internazionale, di cui gli Usa sono azionisti di riferimento (col 17 % delle quote) e che potrebbe sostituirsi alla Germania nell'operazione di salvataggio, ma che è paralizzato appunto dallo scontro sotterraneo che oppone ora Washington a Berlino. Gli Stati Uniti stanno infatti valutando se in fin dei conti, piuttosto che consentire alla Germania di stravolgere gli equilibri geopolitici, non sia meno doloroso - ancorché assai costoso - lasciare che l'euro si disintegri.
Come tutti i conflitti di potenza, anche questo dissidio è ammantato da panni ideologici, in questo caso due diverse interpretazioni del capitalismo, con i tedeschi alfieri di una visione industrialista, esportatrice, che contrappongono alla visione delocalizzatrice e finanziaria di Usa e Gran Bretagna.
L'unico guaio è che di questo conflitto rischiamo di farne le spese noi: come durante la guerra fredda le due superpotenze si scontravano attraverso proxy wars, guerre combattute per delega, così nell'epoca della globalizzazione i conflitti geo-economici si scaricano attraverso crisi finanziarie regionali. Negli anni '90 fu l'area asiatica a fare le spese del regolamento di conti con cui gli Usa spazzarono via le velleità di potenza del Giappone. Oggi possiamo essere noi a pagare lo show-down per voltare definitivamente pagina alla Seconda Guerra mondiale e per equiparare vincitori e vinti.

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