Commettiamo un errore di prospettiva quando scrutiamo la politica della
Germania in un'ottica tutta europea. Nel senso che europeo è il terreno
di manovra, ma mondiale è la posta in gioco. Lo si può constatare meglio
se l'andamento della crisi lo si osserva non da Roma o Parigi (o
persino da Londra), bensì da Washington. Gli Stati Uniti non hanno
infatti dimenticato la mancata adesione tedesca, questa primavera, alla
campagna Nato contro la Libia. All'epoca nessuno provò a riflettere su
cosa implicasse quel gesto che nel passato sarebbe stato inimmaginabile.
È vero che nel 2003 Gerhard Schröder si era dissociato dall'invasione
dell'Iraq, ma lo aveva fatto insieme alla Francia, in nome di una
posizione comune. Stavolta invece la Germania di Angela Merkel si
smarcava proprio dai suoi partner europei.
Quel gesto lasciò
trapelare, per la prima volta in modo palese, la nuova assertività della
Cancelleria tedesca. Mostrò altresì che le critiche che i responsabili
tedeschi da due anni non risparmiavano al capitalismo statunitense, non
erano le solite ostentazioni da primo della classe che alza la mano per
dire alla maestra che lui lo sapeva già. O almeno non erano solo questo.
Certo,
Berlino è stata presa alla sprovvista dalla crisi finanziaria quanto
tutte le altre capitali, e lo dimostrano i massicci aiuti di cui
necessitarono le banche tedesche a cavallo del 2008-2009. Ma a poco a
poco sulla Sprea ci si convinse che la crisi poteva essere sfruttata per
conseguire infine quel che, dalla caduta del muro di Berlino (1989),
rimane l'obiettivo primario di tutti i cancellieri tedeschi, quale che
sia il loro colore politico perché su questo punto l'accordo
dell'establishment politico tedesco è totale, e bipartisan. L'obiettivo è
la reinserzione a pieno titolo della Germania nel novero delle grandi
potenze planetarie, ovvero l'abrogazione totale dell'ordine uscito dalla
seconda guerra mondiale e dagli accordi di Potsdam (1945).
Infatti,
per capire la gestione tedesca dell'attuale crisi cosiddetta «dei debiti
sovrani», bisogna tenere a mente che se oggi c'è l'euro è perché nel
1990 François Mitterrand lo pose come condizione per consentire alla
riunificazione tedesca: l'euro è cioè l'ultima espressione dell'ordine
mondiale post-bellico.
Una Germania unita e sganciata dall'Europa
era troppo potente e troppo pericolosa per i suoi vicini. Il presidente
francese pensava perciò di imprigionarla in una forzosa solidarietà
europea, nella camicia di forza di una moneta comune. Ma che i tedeschi
avessero una propria agenda lo si vide fin dai primi anni '90 dalla
fretta (a volte improvvida) con cui Berlino spinse per l'allargamento a
est dell'Unione europea, come per crearsi un hinterland con cui
bilanciare il resto dell'Europa.
Perciò non dimentichiamo mai che
l'euro è sentito dalla Germania come l'ultimo diktat derivato dalla
sconfitta, come una prigione, cioè proprio quello per cui era stato
pensato. Non è difficile perciò immaginare che i tedeschi provino una
vera e propria Schadenfreude (termine che meravigliosamente
sintetizza la 'gioia provata per le disavventure altrui') quando l'euro
si ritorce contro chi l'aveva imposto e da camicia di forza della
potenza tedesca diventa invece l'arma di punta del suo arsenale
economico-finanziario.
Infatti da qualche tempo a Washington si sono
convinti che l'aggravarsi della crisi del debito sia stata accolta da
Berlino come un'opportunità da sfruttare. Come ha detto un esperto
tedesco di un centro studi di Washington al New York Times: «La
Germania aveva un interesse o un vantaggio strategico nel lasciare che
la crisi nell'Unione europea giungesse alla soglia perché la Francia
fosse disposta a quella cessione di sovranità cui il paese aveva sempre
resistito».
Con la loro forza nell'euro i tedeschi stanno chiarendo
che il duopolio franco-tedesco nell'area euro è in realtà un monopolio
germanico (incombe però sempre il fatto che la Francia è una potenza
nucleare - altro portato della seconda guerra mondiale - mentre la
Germania no).
Ma in gioco non è solo la secolare querelle tra
Parigi e Berlino, ci sono anche i rapporti con Washington e la spinosa
questione del seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza. Lo si vede
dalla veemenza con cui gli Usa spingono la Germania ad allentare i
cordoni della borsa per salvare l'euro, tanto che perfino un
filoamericano come Giscard d'Estaing la considera «indebita ingerenza
Usa negli affari interni europei». Lo dimostra l'apparentemente
infruttuoso «giro delle sette chiese europee» del ministro del Tesoro
Usa, Tim Geitner, della settimana scorsa.
Barack Obama è spinto non
solo da ragioni a breve termine: se la crisi dell'euro si acuisce, e se
la Germania insiste nello spingere tutto il vecchio continente a
draconiane politiche di austerità, il mondo intero si avvia verso una
seconda recessione, molto più grave di quella iniziata nel 2008 e allora
Obama potrebbe dire addio alla speranza di essere rieletto presidente
tra meno di un anno.
La ragione vera è che la Germania sta negoziando
un nuovo status internazionale in cambio del salvataggio dell'euro. Lo
si evince dalla relativa inerzia con cui si sta muovendo il Fondo
monetario internazionale, di cui gli Usa sono azionisti di riferimento
(col 17 % delle quote) e che potrebbe sostituirsi alla Germania
nell'operazione di salvataggio, ma che è paralizzato appunto dallo
scontro sotterraneo che oppone ora Washington a Berlino. Gli Stati Uniti
stanno infatti valutando se in fin dei conti, piuttosto che consentire
alla Germania di stravolgere gli equilibri geopolitici, non sia meno
doloroso - ancorché assai costoso - lasciare che l'euro si disintegri.
Come
tutti i conflitti di potenza, anche questo dissidio è ammantato da
panni ideologici, in questo caso due diverse interpretazioni del
capitalismo, con i tedeschi alfieri di una visione industrialista,
esportatrice, che contrappongono alla visione delocalizzatrice e
finanziaria di Usa e Gran Bretagna.
L'unico guaio è che di questo
conflitto rischiamo di farne le spese noi: come durante la guerra fredda
le due superpotenze si scontravano attraverso proxy wars, guerre
combattute per delega, così nell'epoca della globalizzazione i
conflitti geo-economici si scaricano attraverso crisi finanziarie
regionali. Negli anni '90 fu l'area asiatica a fare le spese del
regolamento di conti con cui gli Usa spazzarono via le velleità di
potenza del Giappone. Oggi possiamo essere noi a pagare lo show-down per voltare definitivamente pagina alla Seconda Guerra mondiale e per equiparare vincitori e vinti.
Fonte.
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