Un bel gioco estivo continuato fino ai giorni nostri sul web (# E' tutta
colpa dei NO-TAV) consisteva nel pensare e nell’addossare tutte le
colpe più improbabili ai notav, messi alla pubblica gogna per la loro
determinazione nel non accettare un’opera inutile e dannosa sul proprio
territorio. Lo scherzo (i notav sanno ridere e sono ben lontani dai toni
plumbei con cui li si vuole rappresentare, ridono anche quando li
sbattono in galera) ha avuto talmente successo che è diventata una pagina facebook in cui ognuno può mettere alla prova la sua inventiva ironica.
Certo
nessuno avrebbe mai immaginato di pensare una nuova colpa per i notav:
camorristi… e simil-stupratori. Ci ha pensato il procuratore capo di
Torino Gian Carlo Caselli (lui sì un uomo triste e incapace di non
prendersi sul serio), infastidito dalle contestazioni che lo seguono in
ogni parte d’Italia (perfino oltre, l’hanno contestato anche in
Svizzera) in occasioni delle sue pubbliche uscite.
Dopo l’ennesima
contestazione avvenuta a Milano (neanche il tempo di lamentarsi che di
lì a poche ore veniva contestato anche a Genova) il super-magistrato si sfoga, indispettito, ad un benevolo Giovanni Bianconi: “sostenere
che la nostra inchiesta criminalizza il movimento è come dire che chi
persegue uno stupro criminalizza il sesso: la protesta e la violenza
sono due cose diverse, esattamente come il sesso e lo stupro. E solo chi
viene da un altro pianeta può pensare che io sia al servizio di qualche
potere forte”.
La logica del magistrato lascia senza fiato.
Non solo perché tradisce l’indispettito umore di chi non è abituato ad
essere contestato (ed è questo il vero nocciolo del problema, bello lo
striscione genovese: “baciamo le mani”) ma anche per le ombre e i
fantasmi che ne agitano il discorso. Partiamo dalla prima impressione
(che per il senso comune è quella che non tradisce) che ci suscita la
lettura. Non possiamo non percepirvi un tono sessuofobico. Perché
quest’accostamento, perché far riferimento alla sessualità (che rimanda
al gioco, allo scambio, all’affettività) alla violenza che ne è in
fondo la negazione? De te fabula narratur direbbero i latini.
Il
paragone macabro che Caselli istituisce può ben essere rappresentato
con le proporzioni che ci insegnavano a scuola. Per Caselli, violento (notav) : notav (buono) = stupratore : sesso.
Il sottinteso infame che suggerisce l’accostamento ci dice in sostanza
che proprio per non rischiare d’infettare la sessualità sana con la
violenza sessuale che ne è la negazione, il movimento notav dovrebbe
isolare e staccarsi dalla parte “violenta” e infettante. La linearità di
questa logica inquirente sostiene l’impalcatura di questa operazione e
di tante altre approvate dal procuratore capo e la ritroviamo senza
soluzione di continuità anche nel discorso di quanti, tra i giornalisti
che difendono l’autorità morale del super magistrato, ci tengono a
presentarsi come “amici dei notav”. Ora non soltanto il movimento notav
non accetta questa separazione tra buoni e cattivi, riconoscendo in
questo un proposito interessato della contro-parte che punta a
dividerlo. Su un piano del discorso ulteriore non può neanche
riconoscersi nei presupposti di quel ragionamento. Ragionamento che
chiede in sostanza ai notav di disconoscere i propri detenuti,
anzi peggio vederli bollati con la peggiore delle infamie. Dovremmo
quindi pensare a Giorgio, Luca, Gabriela e tutti gli altri come degli
“stupratori” della parte sana del movimento ?!? Semplicemente
impossibile…
La mentalità inquisitoria del magistrato è portata a
leggere e interpretare le dinamiche conflittuali, i processi politici
che attraversano il corpo sociale, i divenire che li attraversano in
termini esclusivamente clinici, patogeni. Per i Caselli (e i Travaglio)
c’è sempre una profilassi da fare, i movimenti non dovrebbero far altro.
Ma è nella natura del movimento invece l’essere trasformante e in
trasformazione, preso in un divenire che muta gli atteggiamenti sul
mondo, le priorità dell’esistenza, la scala di valori e la capacità
d’azione degli uomini e delle donne che li fanno vivere. La sociologia
li chiama processi di soggettivazione (collettivi, aggiungiamo noi).
Ci
sembra che queste allusioni, il linguaggio adoperato, questo sguardo
sul sociale tradisca proprio un approccio pesantemente sessuofobico. E’
una sensazione che attraversa le righe del testo e colpisce chi legge.
Ovunque proliferano sommovimenti sociali, soggettività che si aggregano
modificando il proprio status precedente (i “buoni” che se la fanno coi
“cattivi”), raggruppamenti che pongono questioni e bisogni nuovi, questi
signori vedono sempre e solo una minaccia esterna che attenta
all’integrità dell’io sociale. La dichiarazione di Caselli tradisce
questa paura e questa identificazione tra corpo individuale e corpo
sociale. I movimenti che turbano la governabilità del sistema sono come
le pulsioni, vanno normati e divisi tra buoni e cattivi, come quelle in
sane e malate. Forse si tratta solo di una dichiarazione infelice. A noi
sembra invece che la metafora sessuale usata dal Procuratore Capo
riveli invece molto della sua mentalità e della sua cultura politica.
Del resto non siamo i primi a individuare nella pratica giudicante una
forma particolare di libido accoppiata al potere (il godimento
di punire e giudicare) . Uno come Kafka ci ha scritto un romanzo
grandioso (“il Processo”) e ne ha fatto uno dei punti forti della sua
scrittura.
La sortita del Magistrato è stata ovviamente
accompagnata da una serie di commenti di “grandi firme”. Le esternazioni
di un Pier Luigi Battista sul Corriere della Sera non le prendiamo
neanche in considerazione. Troppo scontata e chiara la sua posizione in
merito alla questione notav. Per lui la vicenda della contestazione a
Caselli è solo un’occasione di comodo per attaccare un movimento forte e
radicato. Ci sembra invece più necessario ed urgente una risposta a
Travaglio, perché il suo discorso pretende di situarsi dalla stessa
parte delle ragioni dei notav. Travaglio e il suo giornale non hanno mai
nascosto la loro contrarietà alla grande opera ed effettivamente il
Fatto Quotidiano porta avanti un lavoro di contro-informazione capillare
e puntuale sull’assurdità del Tav (hanno persino pubblicato l’ottimo
libro di Ivan Cicconi sull’argomento). Le critiche che dobbiamo muovere a
Travaglio sono di due ordini. La prima, più generale, lo accomuna ai
tanti che fingono di “rispettare” i notav purché non travalichino i
confini della legalità (avete notato quanta cautela paternalistica nel
rivolgersi ai notav “buoni”?). Lo sfondo di questa argomentazione è la
cultura liberal-governamentale per la quale i movimenti e le istanze che
nascono nel corpo sociale sono buoni e accettabili fintantoché non
mettono in discussione gli equilibri di riproduzione dell’esistente, fin
quando restano movimenti d’opinione. Non appena incrinano questi
equilibri (non appena si fanno politici) sono da confinare a
una delle tanti varianti della criminalità, quindi della penalità. La
dialettica conflittuale legalità-legittimità resta impensabile per un
Travaglio. Come i suoi colleghi Sitav Travaglio può ammettere solo
movimenti che educatamente dicono quello che pensano e altrettanto
compostamente si ritirino dalla scena. Travaglio presuppone movimenti
armati di buone ragioni e al contempo impegnati nell’auto-mutilazione
della propria forza, delle proprie possibilità. Questo atteggiamento,
che si potrebbe superficialmente archiviare come ingenuità politica
tipica del liberalismo, nasconde invece la faccia più autenticamente
politica di questo (questa può essere cosciente o meno in chi se ne fa
portatore, questo è di secondaria importanza). L’essenza di questa
cultura ci dice che oltre certe soglie non si dà più politica, perché la
politica trova il proprio campo (solo ed esclusivamente) nella
composizione e mediazione dei conflitti tra interessi contrapposti. La politicità dei
movimenti è invece quella di portare allo scoperto contraddizioni,
posizioni irriducibili e interessi di parte che trovano la propria
ragion d’essere proprio nel porsi conflittualmente sulla scena della
società, che è poi la scena dell’azione storica. Chiedergli di
rinunciare a questo attributo significa pretenderne l’uscita di scena,
l’auto-annullamento.
Queste considerazioni ci portano alla seconda
obiezione che dobbiamo muovere a Travaglio. Nel suo editoriale di oggi
sul Fatto Quotidiano il fustigatore della casta costruisce un efficace
espediente retorico, il “facciamo finta che”. “Facciamo finta
per un momento” – ci dice Travaglio - “di non sapere che Gian Carlo
Caselli vive sotto scorta da 40 anni” etc, etc. Propone quindi di
chiamare Caselli “Pippo” e di qui procede alla disamina del
comportamento impeccabile del procuratore-Pippo che procede nel suo
lavoro “in perfetta osservanza della legge”. L’argomentare di Travaglio
fila liscio come l’olio, a patto ovviamente di condividere con Caselli
(e Travaglio) il giudizio – non discutibile – sulla legittimità del
sistema vigente. “In realtà di Caselli ce n’è uno solo” [e su questo
siamo perfettamente d’accordo con Travaglio] “quello che, davanti ad una
notizia di reato, procede come gli chiedono la Costituzione e il
Codice Penale senza guardare in faccia nessuno”.
Mentre ci chiede di far finta
che Caselli non sia Caselli, Travaglio ha costantemente bisogno di
appellarsi alla sua figura e alla sua autorità morale per legittimarne
l’operato, oggi sottoposto a critica su più fronti. Per Caselli vale l’ipse dixit,
la parola dell’autorità. La sua figura, il suo giudizio non sono
passibili di critica. L’espediente funziona perché conferma quel che fa
finta di denegare. L’identificazione della persona con la sua funzione
di potere, e di questa con l’istituzione massima è pressoché completa.
Caselli fa quello che gli chiede lo Stato. In fondo, si postula
inconfessabilmente, Caselli è lo Stato. E’ probabile che lui ci creda in
tutto il suo essere. Ad ognuno le sue perversioni.
Questa maniera di
argomentare fatta propria da un Travaglio nelle due obiezioni che gli
muoviamo sottintende una cultura politica di fondo da battere, nemica
dei movimenti e dei soggetti che si pongono sul piano della
trasformazione. In fondo, quello che a Travaglio e Caselli dà fastidio è
la pretesa dei movimenti di farsi soggetto attivo, l'avere mire e fini
propri, il pretendere di essere protagonisti della trasformazione senza
delegare il loro dire e soprattutto il loro fare agli
specialisti del giudicare e dell’argomentare, rifiutare la condizione
intellettuale come attività separata, per riappropriarla come capacità
collettiva. E’ così che il nemico della mafie e del terrorismo e il
fustigatore delle caste si trovano uniti nel difendere le sole due caste
(effettive, reali, queste sì, incontestabili) che non ammettono di
essere criticate perché si presuppongono neutre, necessarie,
ineliminabili, quella del Magistrato e quella dello Scriba.
Fonte.
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