Arriva una nuova spallata neoliberista in vista del futuro grande cambiamento della leadership cinese. Il Development Research Center (in cinese Guówùyuàn fāzhǎn yánjiū zhōngxīn),
un think tank che dipende direttamente dal Consiglio di Stato (leggi
“governo”), ha coprodotto con la Banca Mondiale un rapporto che prevede
una crisi della Cina
se non si metterà mano al settore delle grandi imprese statali. Il
documento “China 2030”sarà presentato lunedì prossimo, ma il Wall Street Journal
ne anticipa i contenuti: sostiene che il governo dovrà dismettere
progressivamente le proprie quote e affidare la gestione delle imprese a
banche d’investimento. Detto in altri termini, chiede alla Cina di
rinunciare al modello economico che l’ha fatta crescere a ritmi
vertiginosi per trent’anni: il capitalismo di Stato.
Il
fenomeno – osserva il Wsj – è stato definito “trappola del reddito
medio” ed è comune a molte economie in via di sviluppo: molto
semplicemente, quando si raggiunge un reddito soddisfacente per la
maggior parte dei cittadini, i ritmi di crescita rallentano.
Per la
Cina, il problema potrebbe essere particolarmente grave a causa della
pressione demografica: tra 2008 e 2009, con l’esplosione della crisi
economica globale, era già stato calcolato che per dare occupazione e un
reddito accettabile ai milioni di nuovi lavoratori che ogni anno si
affacciano sul mercato, fosse necessario non scendere sotto l’8 per
cento. Pechino ce la fece grazie al piano di rilancio varato dal
governo, che puntava soprattutto su infrastrutture e settore immobiliare.
A
distanza di tre anni, “China 2030” – che secondo il Wsj è stato
realizzato proprio per influenzare la prossima generazione di leader –
indica una soluzione diametralmente opposta: le imprese statali devono
smetterla di controllare settori chiave dell’economia chiudendo le porte
della Cina alla concorrenza internazionale. Devono anche finirla di
intercettare buona parte del credito, prosciugando di fatto le
opportunità per le piccole-medie imprese private. [Si veda a questo
proposito il reportage “La paura di Wenzhou” sul numero di marzo di E-il mensile].
Solo così l’economia cinese potrà ristrutturarsi in direzione di una
maggiore efficienza. Se infatti esistono imprese di Stato
all’avanguardia nella conquista dei mercati stranieri, veri e propri
“campioni” da esportazione, la logica che informa tutto il mondo delle state-owned enterprise è più politica che commerciale. Tipico è il caso del credito:
le banche di Stato devono prestare soldi alle imprese di Stato, a
prescindere dalla loro efficienza. Si tengono così in piedi baracconi
improduttivi e si sottraggono risorse ai privati.
Le conseguenze
politiche del dossier sono al momento imprevedibili, anche se tra i suoi
autori c’è Liu He, consigliere del comitato permanente del politburo
(la stanza dei bottoni del potere cinese) e redattore, insieme ad
altri, dell’attuale piano quinquennale. Si dice che Liu goda di una
certa fiducia anche presso il probabile futuro leader, Xi Jinping.
Ma è forse ancora più importante sottolineare che, ormai da tempo, le
correnti neoliberiste all’interno del Partito comunista – un immenso
contenitore dove c’è tutto e il contrario di tutto – sembrano
all’offensiva: fa fede e l’apertura di Pechino al credito privato e alle pratiche finanziarie più speculative.
In
Cina, il conflitto tra “neoliberisti” e “socialdemocratici” ha una
definizione tra il poetico e il prosaico (la contraddizione aristotelica
è roba nostra): i primi sono quelli che vogliono “far crescere la
torta”; gli altri, quelli che vogliono “dividerla in più fette”. Dopo
gli anni in cui la leadership era in mano a pragmatici tagliatori di
fette, sembrerebbe giunto il momento di una nuova aggiunta di lievito.
Nel caso, bisognerà valutarne le conseguenze sociali.
Fonte.
Un articolo illuminante per comprendere le dinamiche economico finanziarie che hanno segnato e rovinato la nostra vita negli ultimi 20-30 anni.
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