Eccole riassunte:
primo. Le autorità giapponesi e i gestori dell’impianto (Tepco) conoscevano i rischi, ma li hanno sottovalutati;
secondo. Il disastro si è rivelato comunque superiore a ogni ipotesi fatta a tavolino;
terzo. A distanza di un anno, le vittime non sono state ancora indennizzate. È scattata la rimozione, appunto.
Oggi, un articolo del New York Times cita l’inchiesta della Rebuild Japan Initiative Foundation, un gruppo indipendente di ricercatori e scienziati giapponesi, secondo cui i leader del Paese non avevano minimamente idea di quale fosse la portata del rischio nucleare e in segreto prendevano in considerazione addirittura la possibilità di evacuare Tokyo. Ma ciò nonostante continuavano a minimizzare in pubblico.
La rimozione “alla Giapponese” non è cosa nuova. Ne avevamo già parlato lo scorso agosto, in occasione dell’ennesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki celebrato però nel cono d’ombra del nuovo disastro nucleare.
Era stupefacente, nei giorni di Fukushima, ascoltare alcune voci dal Paese traumatizzato. Perché il popolo giapponese ha accettato il rischio nucleare? “Perché ci hanno raccontato delle bugie”, rispondevano. Come se le due grandi bombe non ci fossero mai state.
All’indomani della guerra, il Giappone rimosse il dolore di un gruppo, gli hibakusha (“sopravvissuti”), per la necessità di ricostruire il Paese nel quadro di una coesistenza coatta con chi l’aveva sconfitto, gli Usa. Non fu solo vergogna, dunque. Rimozione e coraggio, vergogna e dignità, nel Sol Levante viaggiano a braccetto.
Ne scaturirono l’impressionante boom economico ma anche la contraddizione che ha preparato il terreno a una nuova tragedia nazionale: la scelta del nucleare come motore dello sviluppo, proprio nel Paese che aveva vissuto le conseguenze dell’atomo sulla propria pelle.
Oggi, la gente di Fukushima, come vecchi hibakusha, rischia l’oblio sull’altare di una nuova rinascita o, semplicemente, per l’istinto di conservazione dell’establishment politico-economico. Fino al prossimo disastro.
Fonte.
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