11 marzo 2011. A distanza di quasi un anno dal disastro nucleare, è già scattato il meccanismo di rimozione. È questa una delle tre conclusioni a cui giunge il rapporto “Fukushima, un anno dopo” di Greenpeace.
Eccole riassunte:
primo. Le autorità giapponesi e i gestori dell’impianto (Tepco) conoscevano i rischi, ma li hanno sottovalutati;
secondo. Il disastro si è rivelato comunque superiore a ogni ipotesi fatta a tavolino;
terzo. A distanza di un anno, le vittime non sono state ancora indennizzate. È scattata la rimozione, appunto.
Alla
rimozione si accompagna la non trasparenza. Nei giorni di Fukushima
infuriarono le polemiche contro Tepco e contro il governo di Naoto Kan –
costretto alle dimissioni a settembre – che continuavano a minimizzare
il disastro. Di quelle ore resta un’immagine datata 16 marzo. Un gruppo
di reporter sta assistendo all’ennesimo briefing della Tepco e qualcuno
chiede se sarà versata acqua di mare sui reattori di Fukushima per
evitare la loro fusione. Il responsabile della manutenzione
dell’impianto, Masahisa Otsuki, risponde che “la compagnia sta
considerando questa ipotesi”. Nello stesso istante, uno schermo lì
vicino trasmette l’immagine di un elicottero che prende il volo con
una cisterna d’acqua appesa sotto la pancia. Al bombardamento di domande
dei giornalisti, i funzionari della compagnia rispondono: “Ci scusiamo,
dobbiamo fare una verifica”.
Oggi, un articolo del New York Times cita l’inchiesta della Rebuild Japan Initiative Foundation,
un gruppo indipendente di ricercatori e scienziati giapponesi, secondo
cui i leader del Paese non avevano minimamente idea di quale fosse la
portata del rischio nucleare e in segreto prendevano in considerazione
addirittura la possibilità di evacuare Tokyo. Ma ciò nonostante
continuavano a minimizzare in pubblico.
La rimozione “alla Giapponese” non è cosa nuova. Ne avevamo già parlato lo scorso agosto, in occasione dell’ennesimo anniversario di Hiroshima e Nagasaki celebrato però nel cono d’ombra del nuovo disastro nucleare.
Era stupefacente, nei giorni di Fukushima, ascoltare alcune voci dal
Paese traumatizzato. Perché il popolo giapponese ha accettato il rischio
nucleare? “Perché ci hanno raccontato delle bugie”, rispondevano. Come
se le due grandi bombe non ci fossero mai state.
All’indomani della guerra, il Giappone rimosse il dolore di un gruppo, gli hibakusha
(“sopravvissuti”), per la necessità di ricostruire il Paese nel quadro
di una coesistenza coatta con chi l’aveva sconfitto, gli Usa. Non fu
solo vergogna, dunque. Rimozione e coraggio, vergogna e dignità, nel Sol
Levante viaggiano a braccetto.
Ne scaturirono l’impressionante boom
economico ma anche la contraddizione che ha preparato il terreno a una
nuova tragedia nazionale: la scelta del nucleare come motore dello
sviluppo, proprio nel Paese che aveva vissuto le conseguenze dell’atomo
sulla propria pelle.
Oggi, la gente di Fukushima, come vecchi hibakusha,
rischia l’oblio sull’altare di una nuova rinascita o, semplicemente,
per l’istinto di conservazione dell’establishment politico-economico.
Fino al prossimo disastro.
Fonte.
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