Giorni fa leggevo l'interessante articolo di Gianni Dragoni sull'imminente divorzio tra la Benetton e la Borsa Italiana,
visto da molti come il primo passo verso un cambiamento del controllo
azionario, che vestirebbe di nuovi colori la bandiera degli united
colors of benetton. Le ipotesi sul futuro di questo marchio, tutt'ora
attivo e con una storia straordinaria alle spalle, che racconta una
famiglia di artigiani diventare una multinazionale della moda, e non
solo, ci offre un ottimo spunto per gettare uno sguardo su altri marchi italiani
divenuti famosi nel mondo. Marchi protagonisti di una metamorfosi
sognante, grazie all'inventiva di chi li ha concepiti, ma anche grazie
ai lavoratori italiani e al contributo dello Stato e quindi di tutti
noi.
Di tutti noi si, perché non si può dubitare della correlazione tra le vicende che riguardano una fabbrica e la società civile
che la ospita. Ci sono variabili occupazionali e di reddito dipendenti
dalla strategia industriale e finanziaria adottata da una megaindustria,
ma la rete delle relazioni va ben oltre. C'è l'economia parallela
dell'indotto; ci sono le infrastrutture realizzate su misura per
soddisfare l'esigenza di centralità del luogo di produzione; c'è
soprattutto l'intero tessuto sociale, che è stato plasmato come creta
dal rapporto dominante dell'industria locale sulla comunità. Chi è nato e cresciuto all'ombra dello stabilimento,
assumendone i ritmi e gli umori, i benefici e i danni collaterali, si
sta chiedendo che ne sarà di sé e del territorio in cui vive, poiché
entrambi sono stati investiti totalmente in quella fabbrica, che ora
sembra svanire, un pezzo alla volta.
Probabilmente per una parte di noi, lontana geograficamente dalle zone
di produzione, si avvertiranno più lentamente gli effetti della progressiva deindustrializzazione,
testimoniata dallo stillicidio di aziende italiane cedute a gruppi
economici stranieri. Chi è legato al prodotto solo in quanto consumatore
finale, forse neanche è a conoscenza che sugli scaffali dei
supermercati (quasi sicuramente francesi o tedeschi) vicino casa,
troverà una gran quantità di prodotti non più italiani: da Buitoni a Perugina, da Peroni e Bertolli, da Gancia a Motta; se poi vorrà curiosare davanti alle vetrine delle maison Bulgari, Gucci, Valentino,
sappia che esse non rappresentano più il lusso made in Italy; e se
vorrà, infine, cambiare automobile, tra non molto potrà acquistare un'americanissima Fiat.
A questo proposito mi ricordo quando l'Alfa Romeo fu ceduta alla Fiat,
in cambio di investimenti futuri, invece che alla Ford, in cambio di
miliardi cash, anche per difendere un capitale industriale italiano.
Pertanto, cessione e delocalizzazione fanno si che
l'economia italiana vada sempre più abbracciando una prospettiva di
deindustrializzazione e favorendo lo sviluppo del settore terziario,
cioè quello dei servizi. L'interrogativo attuale è se il cambio industria-servizi sia alla pari oppure no.
La parte dei servizi con maggior valore aggiunto è quella del terziario
avanzato: ricerca, informatica, consulenza tecnica. Quindi tutto ciò
che significa servizi alle imprese, che il nostro paese, però, sta
cedendo all'estero e questo richiederà uno sforzo ulteriore per vincere
la competitività internazionale in casa d'altri, al fine di esportare
servizi avanzati.
Il rischio, che mette paura, è di rimanere con un'economia fondata solo sul settore terziario tradizionale,
quello rivolto alla distribuzione e ai consumi. Un'economia, cioè,
svuotata dalle emozioni di nuove sfide e dall'effetto moltiplicatore che
la tecnologia promette. Questa possibilità, se rimanesse l'unica sul
tavolo, rischierebbe di far avvitare l'Italia su se stessa, precipitandola in un'economia piatta e modesta, ai margini del progresso.
Il cambiamento ha avuto inizio, comprenderlo significa assicurarsi un futuro di crescita e lavoro. Lo sviluppo economico e sociale passa obbligatoriamente per questa strada e sta al governo renderla veloce e sicura.
Fonte.
La domanda ha ben donde d'esser posta e le considerazioni che ne seguono sono esposte in maniera impeccabile, manca giusto il finale. Manco a dirlo, sono qui a posta per arrogarmi il diritto alla risposta.
A mio parere, il cammino italiano è palesemente diretto alla depressione economico sociale. La deindustrializzazione, che oggi viene messa alla berlina con una certa frequenza, è figlia di un capitalismo nazionale che ha ritenuto (a ragione) più proficuo arroccarsi sulle laute rendite finanziarie al posto di continuare nell'opera imprenditoriale che, anche in un paese parassitario come l'Italia, nasconde comunque qualche insidia.
A questa situazione s'è sommata nell'ultimo trentennio un progressivo allontanamento della società (per me assolutamente calcolato!) dal concetto produttivo del lavoro (i vari sfigati affibbiati a tutti quelli che non abbiano conseguito una laurea - anche del cazzo - e non facciano vita da manager col colletto inamidato lo dimostrano ampiamente) che ha agito da volano nei confronti di un cambio di ritmo economico nei confronti del quale, anche le parti sociali direttamente interessate (gli operai) hanno reagito con notevolissima inerzia per non dire di peggio (mi fosse mai capitato di sentire un operaio o sindacalista proporre una soluzione alternativa spendibile alla chiusura dell'azienda X).
La prospettiva più probabile che personalmente vedo nel futuro dell'Italia è quella di tornare ad essere serbatoio di manovalanza a basso costo per produzioni e servizi a basso valore aggiunto, magari su commessa di quei paesi che ora sono meta dei capitani coraggiosi della nostra imprenditoria.
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