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28/02/2012

F-35 contro democrazia

Il numero decisivo pare sia il 90. 90 gli F35 che l’Italia potrebbe acquistare. 90 i giorni di preavviso scritto grazie al quale, invece, ci si potrebbe sottrarre al programma e dirottare quei soldi a destinazioni certamente più degne. Penali, no, allo stato attuale non sono previste. Un mensile, Altraeconomia, ha fatto cadere definitivamente la foglia di fico contabile che fungeva da alibi per i supporter del faraonico progetto. Il più grande della storia dell’aeronautica. Primo fra tutti l’ammiraglio-ministro Di Paola, presente a tutte le fasi di avanzamento del progetto e che ha appena confermato l’acquisto di “soli” 90 dei 131 aerei da 120 milioni l’uno. Prezzo destinato a lievitare. Un fissazione bipartizan che, dal primo governo Prodi porta fino a Monti passando per D’Alema e Berlusconi. Ma, come spiega un corposo dossier messo in rete dalla campagna “Taglia le ali alle armi” (www.disarmo.org) dei diecimila posti di lavoro promessi solo 4 anni fa non ce n’è più traccia: restano la prospettiva di 200 posti nel picco della produzione, 800 nell’indotto, un peso di svariate decine di miliardi (10 per l’acquisto e una trentina per gestirli) sul debito pubblico e un nome, Lockheed, che richiama stagioni altrettanto cupe della politica nazionale. Perché la marca degli F35, caccia d’attacco monoposto, supersonici e quasi invisibili ai radar, è la stessa dello scandalo che travolse un presidente della Repubblica e un paio di ministri a metà degli anni ’70. Prima di diventare una delle armi più micidiali mai costruite dall’uomo, F35 è già una storia di micidiali panzane e di un flop industriale senza precedenti.
Tutta acqua al mulino di chi, sabato 25 febbraio, darà vita alle 54 iniziative in altrettante città della giornata di mobilitazione contro gli F35. Una protesta che potrebbe montare sebbene la fase politica sia tra le meno in fermento della storia e il parlamento in carica sia il più belligerante che si ricordi e il governo si appresti a perseverare in un progetto dispendioso all’ombra di una finta riforma delle forze armate. Un gioco di prestigio, secondo la Rete Disarmo, funzionale al famigerato Nuovo modello di difesa. Si tratta solo di un riequilibrio delle voci in bilancio, quello che si risparmierà sulle spese per il personale verrà dilapidato in armamenti a tutto vantaggio dell’apparato militare industriale. Secondo dati della Nato, la spesa militare italiana resterà intorno all’1,4% del Pil e non sotto l’1 come cerca di far credere via XX Settembre. Di Paola procede a tappe forzate evitando come la peste un confronto in Parlamento e senza mai chiarire i numeri forniti palesemente errati anche secondo gli addetti ai lavori. La Rete Disarmo (Sbilanciamoci, Tavola della Pace e ControllArmi) da due anni sta raccogliendo firme, promuovendo mozioni negli enti locali e proverà a interpellare i parlamentari collegio per collegio.
Quello del caccia F-35 è un programma che ad oggi ci è costato già 2,7 miliardi di euro nell’ambito del più grande progetto aeronautico militare della storia, costellato di problemi, sprechi e budget sempre in crescita. Altri paesi partecipanti - tra cui Gran Bretagna, Norvegia, Olanda, Danimarca e gli stessi Stati Uniti capofila! - hanno sollevato dubbi e rivisto la propria partecipazione mentre gli organi indipendenti di monitoraggio come il Gao ne hanno messo in rilievo la lievitazione dei costi fino a produrre un braccio di ferro anche tra Pentagono - che punta al prezzo fisso - e Lockheed Martin disponibile a uno sconto del 20%. Intanto, solo nel mese di ottobre 2011, il Dipartimento della difesa Usa ha chiesto 725 richieste di modifiche tecniche perché il programma farebbe acqua. Un costosissimo colabrodo vittima anche di furti informatici. I partner hanno già scelto o stanno per scegliere di ridimensionare l’impegno e tutti sono impegnati in un braccio di ferro con gli States per strappare i fatidici ritorni industriali dietro cui giustificare la scelta. Ma, come spiega il dossier, l’occupazione è solo un miraggio mentre quei soldi potrebbero - e dovrebbero - servire a uscire dalla crisi rilanciando welfare, redditi e lavoro in sintonia con l’articolo 11 e molti altri della Costituzione. Vale la pena ricordare che, con il costo di uno solo di quegli aggeggi si potrebbe costruire 387 asili nido con 11.610 famiglie beneficiarie e circa 3.500 nuovi posti di lavoro oppure 21 treni per i pendolari con 12.600 posti a sedere oppure 32.250 borse di studio per gli studenti universitari oppure 258 scuole italiane messe in sicurezza (rispetto norme antincendio, antisismiche, idoneità statica) oppure 18.428 ragazzi e ragazze in servizio civile oppure 17.200 lavoratori precari coperti da indennità di disoccupazione oppure 14.742 famiglie con disabili e anziani non autosufficienti aiutate con servizi di assistenza. Riuscire a non far comprare quei caccia potrebbe essere un primo passo.

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