Rafforzare il controllo lungo il confine con la Siria per evitare il
contrabbando di armi verso Damasco: questa la nuova parola d’ordine del
governo di Baghdad che ieri ha annunciato l’incremento delle forze di
sicurezza irachene alla permeabile frontiera con la Siria, lunga 600
chilometri e considerata dall’Iraq possibile vettore delle violenze
settarie in casa irachena.
A spaventare il governo sciita di Nouri al Maliki è l’eventuale
contagio da parte della crisi siriana alla traballante stabilità interna
irachena, scossa da attentati e violenze quasi settimanali da parte di
affiliati di Al Qaeda, gruppi sunniti islamisti, fedeli del partito
Baath di Saddam, ma anche semplici gang criminali e milizie sciite. Un
settarismo interno che sta sgretolando la difficile ricostruzione
sociale, economica e politica di un Paese uscito da nove anni di guerra e
occupazione militare statunitense.
Ultimo in ordine di tempo l’attentato suicida di ieri: un kamikaze si
è fatto esplodere dentro la sua auto mentre un gruppo di poliziotti
usciva dall’Accademia, nella capitale irachena, dove si stava svolgendo
un training di due settimane. Sarebbero almeno 18 i morti, 27 i feriti.
Secondo la ricostruzione della polizia, l’attentatore si trovava fuori
dall’Accademia, situata a pochi metri dal quartier generale del
Ministero degli Interni.
Di nuovo il target torna ad essere la polizia irachena, punto debole
delle forze di sicurezza del Paese. L’attentato non è stato ancora
rivendicato, ma diversi osservatori parlano della mano di Al Qaeda,
ancora significativa minaccia in Iraq. Ma non solo. È di pochi giorni fa
la chiamata alle armi del numero uno di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri,
che in un video ha fatto appello ai musulmani di Iraq, Libano, Turchia e
Giordania perché combattano per la Siria, contro il regime di Bashar,
definito “canceroso e pernicioso”.
Un simile appello e il traffico ininterrotto di armi dall’Iraq alla
Siria ha messo in allarme il governo di Al Maliki, che ha deciso di
rafforzare i controlli al confine. La situazione si è così ribaltata: se
fino a poco tempo fa, durante l’invasione delle truppe USA in Iraq,
armi e combattenti partivano da Damasco in direzione Baghdad, ora
avviene l’opposto. Un contrabbando di armi sempre più consistente che va
a rafforzare le file dei ribelli siriani e degli infiltrati jihadisti a
sostegno dell’Esercito Libero Siriano, incrementando i timori di
Baghdad.
Il primo ministro iracheno Maliki ha annunciato sabato “di lavorare
per chiudere i confini con la Siria al traffico illegale di armi, che
terroristi e criminali stanno utilizzando”. Non è ancora chiaro quali
tipi di misure il governo di Baghdad intenda implementare alla
frontiera. In ogni caso, l’obiettivo dell’esecutivo sciita iracheno è
quello di evitare una caduta del regime alawita di Assad, non tanto per
questioni di vicinanza religiosa, quanto per il concreto timore che il
crollo di Bashar possa aprire la strada ad una guerra civile anche in
Iraq.
Negli ultimi anni i rapporti tra Iraq e Siria si sono consolidati
come mai in passato. E Baghdad pare essere rimasto uno dei pochi governi
a sostenere più o meno apertamente il regime di Bashar: la decisione di
non votare a favore delle sanzioni economiche e finanziarie che la Lega
Araba ha imposto alla Siria e a favore della sospensione di Damasco
dall’Assemblea sono chiari segni di un appoggio politico che si fonda su
solide basi economiche. L’Iraq è oggi il più grande mercato dei
prodotti siriani all’estero: nel 2011 il commercio tra i due Paesi ha
raggiunto i due miliardi di dollari. Secondo il dipartimento di
statistica siriano, del 52% delle esportazioni totali della Siria
destinate ai Paesi arabi, il 31% è diretto in Iraq.
Ma non solo. Mentre il mondo arabo, Paesi del Golfo e Turchia in
testa, ritirano gli ambasciatori da Damasco e interrompono i rapporti
commerciali con la Siria, Maliki continua a firmare accordi economici
con Bashar, significativo strumento per bloccare l’emorragia economica
che la Siria sta subendo: si calcola che ogni mese Damasco stia perdendo
un miliardo di dollari a causa delle sanzioni.
A ciò si aggiungono i circa 300mila profughi iracheni in Siria: la
caduta della famiglia alawita potrebbe provocare il netto peggioramento
delle condizioni umanitarie e sociali dei rifugiati fuggiti in Siria
durante l’invasione americana. E infine, la paura che settarismi e
violenze siriane possano contagiare l’Iraq, alle prese con una
pacificazione interna senza soluzione. Dopo la partenza delle truppe
americane dall’Iraq, Baghdad teme che la crisi di Damasco possa far
esplodere una guerra tra sunniti e sciiti, a partire dal confine con la
Siria.
Damasco ha costantemente lavorato negli ultimi tempi per mantenere
rapporti stabili con Baghdad, nel timore che “un governo appoggiato
dagli USA a Baghdad l’avrebbe quasi certamente posta tra due potenze
ostili: Israele e un Iraq filo-americano”, come spiega in un editoriale
apparso su Gulf News Marwan Kalaban, preside della Facoltà di Relazioni
Internazionali dell’Università di Kalamoon con sede a Damasco.
“Dopo 24 anni di interruzione – prosegue Kalaban – le relazioni
diplomatiche tra Damasco e Baghdad si sono rafforzate solo nel marzo
2010 quando la Siria, sotto la pressione iraniana, ha appoggiato il
tentativo del primo ministro iracheno Nouri Al Maliki di ottenere un
secondo mandato e diversi accordi commerciali ha aumentato gli
investimenti siriani in Iraq. Così, quando il movimento di protesta
scoppiò in Siria un anno dopo, Maliki, ancora una volta sotto la
pressione iraniana, ha sostenuto il regime siriano, illustrando fino a
che punto la posizione dell’Iraq in Medio Oriente si fosse spostata
verso un asse guidato dall’Iran”.
Difatti, ciò a cui si sta assistendo è la creazione di un potenziale
nuovo asse, figlio della fine dell’occupazione statunitense e delle
proteste in Siria e formato da Iraq, Iran e Siria, in opposizione alla
nuova alleanza filo-occidentale di Turchia e Paesi del Golfo.
Fonte.
Il Medio Oriente di questi mesi mi pare la fotocopia della Jugoslavia più sanguinolenta d'inizio anni '90. Per stabilizzare quel fazzoletto di terra non sono stati sufficienti 20 anni d'interposizione ONU, mi prende male al pensiero di cosa produrrà l'odierna destabilizzazione occidentale nei paesi arabi.
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