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20/02/2012

L'iraq e lo spettro della crisi siriana

Rafforzare il controllo lungo il confine con la Siria per evitare il contrabbando di armi verso Damasco: questa la nuova parola d’ordine del governo di Baghdad che ieri ha annunciato l’incremento delle forze di sicurezza irachene alla permeabile frontiera con la Siria, lunga 600 chilometri e considerata dall’Iraq possibile vettore delle violenze settarie in casa irachena.
A spaventare il governo sciita di Nouri al Maliki è l’eventuale contagio da parte della crisi siriana alla traballante stabilità interna irachena, scossa da attentati e violenze quasi settimanali da parte di affiliati di Al Qaeda, gruppi sunniti islamisti, fedeli del partito Baath di Saddam, ma anche semplici gang criminali e milizie sciite. Un settarismo interno che sta sgretolando la difficile ricostruzione sociale, economica e politica di un Paese uscito da nove anni di guerra e occupazione militare statunitense.
Ultimo in ordine di tempo l’attentato suicida di ieri: un kamikaze si è fatto esplodere dentro la sua auto mentre un gruppo di poliziotti usciva dall’Accademia, nella capitale irachena, dove si stava svolgendo un training di due settimane. Sarebbero almeno 18 i morti, 27 i feriti. Secondo la ricostruzione della polizia, l’attentatore si trovava fuori dall’Accademia, situata a pochi metri dal quartier generale del Ministero degli Interni.
Di nuovo il target torna ad essere la polizia irachena, punto debole delle forze di sicurezza del Paese. L’attentato non è stato ancora rivendicato, ma diversi osservatori parlano della mano di Al Qaeda, ancora significativa minaccia in Iraq. Ma non solo. È di pochi giorni fa la chiamata alle armi del numero uno di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, che in un video ha fatto appello ai musulmani di Iraq, Libano, Turchia e Giordania perché combattano per la Siria, contro il regime di Bashar, definito “canceroso e pernicioso”.
Un simile appello e il traffico ininterrotto di armi dall’Iraq alla Siria ha messo in allarme il governo di Al Maliki, che ha deciso di rafforzare i controlli al confine. La situazione si è così ribaltata: se fino a poco tempo fa, durante l’invasione delle truppe USA in Iraq, armi e combattenti partivano da Damasco in direzione Baghdad, ora avviene l’opposto. Un contrabbando di armi sempre più consistente che va a rafforzare le file dei ribelli siriani e degli infiltrati jihadisti a sostegno dell’Esercito Libero Siriano, incrementando i timori di Baghdad.
Il primo ministro iracheno Maliki ha annunciato sabato “di lavorare per chiudere i confini con la Siria al traffico illegale di armi, che terroristi e criminali stanno utilizzando”. Non è ancora chiaro quali tipi di misure il governo di Baghdad intenda implementare alla frontiera. In ogni caso, l’obiettivo dell’esecutivo sciita iracheno è quello di evitare una caduta del regime alawita di Assad, non tanto per questioni di vicinanza religiosa, quanto per il concreto timore che il crollo di Bashar possa aprire la strada ad una guerra civile anche in Iraq.
Negli ultimi anni i rapporti tra Iraq e Siria si sono consolidati come mai in passato. E Baghdad pare essere rimasto uno dei pochi governi a sostenere più o meno apertamente il regime di Bashar: la decisione di non votare a favore delle sanzioni economiche e finanziarie che la Lega Araba ha imposto alla Siria e a favore della sospensione di Damasco dall’Assemblea sono chiari segni di un appoggio politico che si fonda su solide basi economiche. L’Iraq è oggi il più grande mercato dei prodotti siriani all’estero: nel 2011 il commercio tra i due Paesi ha raggiunto i due miliardi di dollari. Secondo il dipartimento di statistica siriano, del 52% delle esportazioni totali della Siria destinate ai Paesi arabi, il 31% è diretto in Iraq.

L'autobomba esplosa ieri a Baghdad all'Accademia della polizia: 18 morti
Ma non solo. Mentre il mondo arabo, Paesi del Golfo e Turchia in testa, ritirano gli ambasciatori da Damasco e interrompono i rapporti commerciali con la Siria, Maliki continua a firmare accordi economici con Bashar, significativo strumento per bloccare l’emorragia economica che la Siria sta subendo: si calcola che ogni mese Damasco stia perdendo un miliardo di dollari a causa delle sanzioni.
A ciò si aggiungono i circa 300mila profughi iracheni in Siria: la caduta della famiglia alawita potrebbe provocare il netto peggioramento delle condizioni umanitarie e sociali dei rifugiati fuggiti in Siria durante l’invasione americana. E infine, la paura che settarismi e violenze siriane possano contagiare l’Iraq, alle prese con una pacificazione interna senza soluzione. Dopo la partenza delle truppe americane dall’Iraq, Baghdad teme che la crisi di Damasco possa far esplodere una guerra tra sunniti e sciiti, a partire dal confine con la Siria.
Damasco ha costantemente lavorato negli ultimi tempi per mantenere rapporti stabili con Baghdad, nel timore che “un governo appoggiato dagli USA a Baghdad l’avrebbe quasi certamente posta tra due potenze ostili: Israele e un Iraq filo-americano”, come spiega in un editoriale apparso su Gulf News Marwan Kalaban, preside della Facoltà di Relazioni Internazionali dell’Università di Kalamoon con sede a Damasco.
“Dopo 24 anni di interruzione – prosegue Kalaban – le relazioni diplomatiche tra Damasco e Baghdad si sono rafforzate solo nel marzo 2010 quando la Siria, sotto la pressione iraniana, ha appoggiato il tentativo del primo ministro iracheno Nouri Al Maliki di ottenere un secondo mandato e diversi accordi commerciali ha aumentato gli investimenti siriani in Iraq. Così, quando il movimento di protesta scoppiò in Siria un anno dopo, Maliki, ancora una volta sotto la pressione iraniana, ha sostenuto il regime siriano, illustrando fino a che punto la posizione dell’Iraq in Medio Oriente si fosse spostata verso un asse guidato dall’Iran”.
Difatti, ciò a cui si sta assistendo è la creazione di un potenziale nuovo asse, figlio della fine dell’occupazione statunitense e delle proteste in Siria e formato da Iraq, Iran e Siria, in opposizione alla nuova alleanza filo-occidentale di Turchia e Paesi del Golfo.

Fonte.

Il Medio Oriente di questi mesi mi pare la fotocopia della Jugoslavia  più sanguinolenta d'inizio anni '90. Per stabilizzare quel fazzoletto di terra non sono stati sufficienti 20 anni d'interposizione ONU, mi prende male al pensiero di cosa produrrà l'odierna destabilizzazione occidentale nei paesi arabi.

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