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03/02/2012

Articolo 18, un dibattito “monotono”

Il posto fisso è “monotono”, dice il premier Monti. Uscita infelice, forse una provocazione, ma la sostanza del discorso del presidente del Consiglio a “Matrix” è quasi una banalità: il posto fisso non esiste più. Il problema è che certe polemiche non provocano altro che la radicalizzazione dello scontro attorno all’articolo 18 e, forse, fanno perdere di vista la reale natura dei problemi.
Proviamo a rimettere ordine con Marco Leonardi, docente di economia all’Università Statale di Milano.

Il dibattito attorno all’articolo 18 è sostanziale?
Quello che ha detto Monti, al di là della forma, è un dato di fatto: non esiste più il posto fisso. Tutti si scandalizzano. Il problema è che l’articolo 18 è diventato uno slogan, ma in realtà si può cambiarlo “a pezzetti”.
L’articolo 18 prevede il diritto a essere reintegrati se ti licenziano senza giusta causa. Facciamo una premessa: se il licenziamento è di tipo discriminatorio, nessuno in Italia dice che non deve esserci il reintegro.
Il problema è quando si parla di “giustificato motivo economico”, cioè quando un’azienda è in crisi. Qualcuno, come Ichino, dice che i giudici non sono in grado di valutarlo. Altri sostengono irragionevole il reintegro sul posto di lavoro, perché di fatto il lavoratore rientrerebbe in un’azienda che non lo vuole. Altri, come il sottoscritto, dicono che non è possibile continuare nel quadro dell’incertezza data dal giudizio. Sarebbe cioè meglio creare diversi livelli di certezza: se ti licenziano, ti devono offrire una certa cifra; se non l’accetti, puoi andare in giudizio; però anche tu ti assumi i rischi del giudizio. Invece adesso, dato che il lavoratore non ha nulla da perdere, va sempre in giudizio. Ma questo non è ragionevole con i tempi della giustizia italiana.

In Italia ci sono 4 milioni e 300mila aziende con meno di quindici dipendenti e 114mila con più di 15. Considerando quindi il fatto che la maggior parte delle aziende non applica già il reintegro previsto dall’articolo 18, che peso reale ha questo dibattito?
Attenzione però, dal punto di vista dell’occupazione, nelle aziende con più di 15 dipendenti lavora la metà dei lavoratori italiani. Per quanto riguarda i numeri, quindi, parlare di articolo 18 continua ad avere senso.

Al di là della battuta infelice di Monti sul posto fisso “monotono”, l’impressione è che si continui a vendere la flessibilità come un’opportunità, mentre in fase recessiva significa soprattutto mancanza di prospettive.
È sicuramente vero, ma il problema è questo: se vietiamo il licenziamento, per quale motivo un imprenditore che vuole far crescere la propria azienda sopra i 15 dipendenti dovrebbe assumere un lavoratore a tempo indeterminato? Oggi esistono mille altri modi di assumere una persona e utilizzerà sicuramente quelli: dalla partita Iva alla nuova impresa a un euro per i giovani che ha varato il governo Monti. Io, imprenditore, invece di assumere qualcuno, gli dico di fare l’impresa a un euro e poi lavora per me come fornitore. Tutto ciò non è illegale, non si può impedirlo.
È vero che c’è la crisi, è vero che tutti hanno paura di essere licenziati, ma è anche vero che nessuno ti assumerà mai se poi ha paura di non poterti mai licenziare.
Bisogna quindi trovare una soluzione tollerabile per tutti ed è per questo che lo scontro sull’articolo 18, così com’è, non ha senso. Non si tratta di dire “sì” o “no”, ma di fare un articolo 18 diverso da prima.
Non è solo togliere, rinunciare a dei diritti. In Germania hanno fatto un compromesso ragionevole: il reintegro non c’è più, può essere solo monetizzato.

In cambio dovrebbero darti gli ammortizzatori sociali. Però, quando se ne parla, sono gli stessi esponenti del governo Monti ad aggiungere subito “però non ci sono i soldi”.
Abbiamo pochi ammortizzatori sociali ma abbiamo molta cassa integrazione, anche quella in deroga per cui i beneficiari non hanno precedentemente pagato. Quindi abbiamo pochi soldi per gli ammortizzatori, però ne destiniamo molti a questo tipo di cassa integrazione, che sarà tolta.
Il punto è che una riforma del lavoro andrebbe giudicata dalla sua capacità di ampliare sempre più il lavoro a tempo indeterminato. Se riesce a diminuire l’uso dei contratti a termine, delle partite Iva finte, e così via. Per rendere più esteso il lavoro a tempo indeterminato, bisogna renderlo anche un po’ più flessibile.

Fonte.

Quest'intervista è l'ennesima dimostrazione che la maggioranza degli economisti non capisce un cazzo della propria materia.

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