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22/05/2014

L'affondo finale di Confindustria sul mercato del lavoro

Si usa dire che “dio confonde coloro che vuole perdere”. Se così fosse, i nostri industriali non avrebbero speranze. E in effetti non ne hanno.

Ma provano a sopravvivere facendo l'unica cosa che sanno fare. Che non è – come dicono dai loro giornali – “fare industria”. Loro sanno soltanto chiedere al governo di abbassare il costo del lavoro e cancellare le conquiste realizzate tra la fine degli anni '60 e i '70. Vanno avanti così da oltre 20 anni e hanno ridotto se stessi alla caricatura dell'industriale, impoverendo al tempo spesso il paese e i propri dipendenti. Ciò nonostante, insistono. E mirano direttamente all'abolizione del contratto a tempo indeterminato.

Il documento presentato ieri da Confindustria potrebbe essere agevolmente definito ridicolo sul piano economico, se non fosse anche criminogeno su quello sociale. La fotografia che restituisce, infatti, è quella di una produzione industriale che non può “competere” a causa del costo del lavoro troppo alto.

Sappiamo tutti – lo ammette anche l'Ocse – che i salari italiani sono i più bassi dell'Unione Europea, superati all'ingiù negli ultimi anni soltanto da quelli greci e portoghesi. Di quale costo del lavoro stiamo parlando, allora? Si potrebbe accusare ancora una volta il famigerato “cuneo fiscale”, ovvero quel complesso di contributi (previdenziali, ecc) o tasse vere e proprie (Irpef, locali, ecc) che rendono “leggera” la busta paga netta rispetto alla “pesantezza” di quella lorda. Ma non è neanche così, perché anche in altri paesi concorrenti (ad esempio la Spagna) ci sono dinamiche di costo grosso modo simili.

No. Il costo del lavoro indicato è il “Clup”, ovvero “costo del lavoro per unità di prodotto”, anche se nel linguaggio mediatico ci si ferma alla prima parte della frase. Cosa vuol dire? Che per ogni “unità di prodotto” la parte di costo derivante dalle voci addebitabili al lavoro è mediamente troppo alta. Ma se si parla di Clup allora bisogna parlare di “produttività” del lavoro.

Qui conviene sciogliere un altro equivoco interessato. La “produttività” di un'ora di lavoro dipende sia dal ritmo imposto agli operai (e impiegati, ecc), sia dalle tecnologie usate. Sappiamo tutti che macchinari più moderni consentono di sfornare nella stessa unità di tempo più prodotti di quelle vecchie; e con meno esseri umani. Mentre gli esseri umani non possono “correre” più di tanto, né lavorare più di 24 ore al giorno, un sistema di macchine all'avanguardia può fare la differenza.

Per un po' di tempo. Perché i “concorrenti” prima o poi capiscono che devono ammodernare i propri impianti, più che frustare a sangue i propri dipendenti. Ma per installare macchinari più moderni occorrono investimenti. Ovvero: i padroni dovrebbe spendere di tasca propria per sostituire le linee produttive obsolete. E magari fondersi per dare dimensioni meno asfittiche alle imprese operanti (un'azienda troppo piccola non disporrà mai di capitali propri sufficienti per investire in “modernità”).

Anatema! I nostri industriali, salvo poche eccezioni, preferiscono comprimere il costo del lavoro piuttosto che investire un euro. E i fallimenti alle loro spalle su questa strada non vengono neppure presi in esame: se non sono mai riusciti – in oltre 20 anni – a recuperare competitività per loro è colpa di una “insufficiente compressione” dei salari, un “eccesso di rigidità nelle regole del mercato del lavoro”. Chiedono insomma una dose maggiore – probabilmente letale – della stessa terapia che li sta facendo chiudere.

In questo modo, infatti, pensano di poter “esportare di più”, senza badare al fatto che invece stanno distruggendo il loro mercato interno. Se tutti i lavoratori – vecchi e giovani – guadagnano sempre meno, compreranno sempre meno prodotti. Specie quelli “made in Italy”, perché troppo costosi rispetto alla concorrenza degli “emergenti”.

Un neomercantilismo che scimmiotta da pezzenti il modello tedesco. Mentre i prussiani aumentano la produttività grazie a investimenti in tecnologia, qui si pensa di inseguire risparmiando sui salari...

La novità delle proposte di Confindustria – come potete apprezzare da soli leggendo il documento allegato – sta dunque nel considerare “eccessivamente rigido” anche il “contratto a tutele crescenti” delineato da Pietro Ichino & co. e fatto proprio dal governo Renzi, tanto da essere uno degli assi portanti del “jobs act”.
“La pluralità delle esigenze produttive ed organizzative del lavoro difficilmente è riconducibile ad un’unica fattispecie contrattuale. Il rischio è quello di irrigidire eccessivamente la legislazione del lavoro e, analogamente a quanto accadeva in passato, ridurre le opportunità occupazionali offerte dal mercato”.
Molto meglio, secondo il documento,
“ragionare sulle tipologie contrattuali esistenti e aggiustarne i contenuti in una logica di flexicurity ”.
L'esempio “positivo” viene trovato nella recente riscrittura del “contratto a tempo determinato”, che precarizza praticamente a vita i neo assunti da oggi in poi. Grandi lodi anche alla riscrittura dell'apprendistato, che però “può esser reso ancora più flessibile” con una serie di misure che “merita” di essere fotografata.


Avete capito bene: qualifiche professionali solo “dopo”, estensione ai minorenni, azzeramento dei contributi a carico dell'azienda, “finestre di verifica” che permettano all'impresa di cacciarti in ogni momento.

Ma questo massacro delle generazioni di lavoratori a venire, pur apprezzato, “non basta”. L'obiettivo diventa dunque quello di
“intervenire sulla disciplina del contratto di lavoro a tempo indeterminato ”
introducendo “la flessibilità delle mansioni” e cancellando definitivamente
“la reintegrazione prevista dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori che dovrebbe trovare applicazione per le sole fattispecie di licenziamenti nulli o discriminatori ”.
Semplice, no? Se le “mansioni” diventano “flessibili” si può spostare a piacimento qualsiasi dipendente da una mansione all'altra, senza troppi riguardi per la professionalità e i conseguenti livelli di inquadramento (e retributivi) fissati dai contratti. Abolendo la “reintegra”, come sempre, si otterrebbe la precarietà totale anche di quei dipendenti formalmente assunti “a tempo indeterminato”; soprattutto, i padroni avrebbe un'arma di ricatto assolutamente formidabile nei confronti di chiunque stia nella loro azienda. Schiavi per sempre, senza diritto di parola e di contraddizione.

Quest'ultimo obiettivo è esplicito nella terza “modifica” richiesta:
“aggiornare la disciplina dei controlli a distanza limitando il divieto alle apparecchiature che hanno la finalità esclusiva di controllare a distanza l’attività dei lavoratori ”.
Un po' come i poliziotti che invece del numero identificativo sulla divisa indosseranno telecamere sul casco... Insomma: non devi sottrarre al lavoro produttivo neanche la frazione di secondo che ti occorre per soffiarti il naso...

Il resto è quasi ordinaria amministrazione, a partire dalla “razionalizzazione” degli enti preposti a far “incontrare domanda e offerta di lavoro”, con ovvia enfasi sul ruolo delle agenzie private contrapposte alla rete delle pubbliche.

Una parola va però spesa sugli ammortizzatori sociali. La “riforma” pretesa da Confindustria elimina – come già promesso del resto da Renzi – la cassa integrazione, che verrebbe limitata soltanto a quelle imprese con “chiare prospettive di ripresa”. Per tutti gli altri, invece, un mini-Aspi di non lunghissima durata. E soprattutto con aliquote contributive più basse a carico delle aziende.

In una parola: lavoratori come bancali da consegna. Entrano quando c'è l'ordinativo, escono quando non servono più o “disturbano” troppo. Trovate voi il nome per qualificare questa condizione...

Il documento originale di Confindustria.

Fonte

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