di Chiara Cruciati il Manifesto
Economia, energie rinnovabili, ambiente: al G20 di Brisbane Obama parla di tutto ma lascia in un angolo la crisi mediorientale.
Dopo tre mesi di operazione militare, 800 raid aerei e milioni di
dollari investiti, i ricchi della terra non ne parlano ufficialmente.
Eppure l’Isis compare tra le righe, ai margini del summit. O meglio, a
farsi strada sono le mire statunitensi in Siria: in Australia il presidente Obama ha di nuovo rigettato alleanze, anche temporanee, con il presidente siriano Assad.
«Assad ha barbaramente ucciso centinaia
di migliaia di suoi cittadini – ha detto il presidente in un incontro
con la stampa – Di conseguenza, ha perso completamente legittimità. Per
questo riteniamo che fare fronte comune con lui contro l’Isis
provocherebbe solo ulteriori ribellioni sunnite in Siria a favore dello
Stato Islamico».
La politica verso Assad e la
strategia in Siria non subiranno modifiche. Una visione condivisa con la
Turchia che non ha mai fatto mistero dei propri obiettivi: rovesciare
il nemico siriano. Domenica a Brisbane il premier turco
Davutoglu ha incontrato Obama con cui ha discusso delle crisi irachena e
siriana: Ankara e Washington – ha fatto sapere il primo ministro turco –
concordano sulla fine da far fare ad Assad. Da tempo nel mirino di
Erdogan c’è un cambio di regime, che tenta di raggiungere con ogni
mezzo, da ultimo con la negazione di un intervento militare diretto a
Kobane e la richiesta di una zona cuscinetto a nord della Siria dove
addestrare le opposizioni moderate.
Eppure, se i due leader
analizzassero con onestà gli attuali sviluppi, noterebbero che Assad ha
la stessa necessità di frenare l’avanzata islamista e che il fronte
guidato da al-Baghdadi colpisce l’esercito governativo siriano come
colpisce comunità sunnite, minoranze etniche irachene e kurde e ostaggi
stranieri.
Se i media di tutto il mondo hanno dato
ampio spazio all’ennesima barbarie compiuta dai miliziani islamisti – la
decapitazione dell’ex soldato Usa e ora cooperante, Peter Kassig – ben
pochi hanno raccontato che accanto al cittadino Usa sono stati
giustiziati 18 soldati siriani. Nel nuovo video pubblicato domenica dal
califfato si vede la testa di un uomo che le autorità Usa hanno
affermato essere il 26enne rapito in Siria lo scorso anno. Il video non
mostra l’uccisione di Kassig: per questo un gruppo di opposizione
siriano ieri ha avanzato la tesi che l’ostaggio sia stato ucciso il 5
novembre in un bombardamento Usa.
«Ci è stato portato via con un atto di
pura malvagità – ha detto Obama in un comunicato ufficiale – da un
gruppo terroristico che il mondo associa alla disumanità». Disumana
anche la decapitazione di 18 soldati dell’esercito governativo siriano
(483 il numero totale di militari uccisi dall’Isis), ennesima
dimostrazione dell’avversione di al-Baghdadi per il governo di Damasco.
Dietro sta anche la nuova alleanza tra Isis e Fronte al-Nusra, contro
cui vaste porzioni dei gruppi di opposizione (anche moderati)
preferiscono non schierarsi. Tra questi parte dell’Esercito Libero
Siriano, ormai debolissimo, che – stando a quanto riportato da un suo
comandante – ha assistito ufficiosamente alla sigla del patto tra i due
gruppi islamisti ad Aleppo.
Per questa ragione non sono
pochi gli analisti – e le voci fuori dal coro dentro la stessa
intelligence Usa – che vedono nel sostegno incondizionato alle
opposizioni moderate non solo una strategia infruttuosa, ma anche
controproducente. L’Esercito Libero Siriano non sa e (in alcuni casi)
non intende opporsi all’avanzata dello Stato Islamico visto come un
aiuto indiretto al rovesciamento di Assad ed è noto come molte delle
armi consegnate dall’Occidente ai moderati anti-regime siano oggi nelle
mani dei miliziani di al-Baghdadi.
La chiusura a Damasco (che ieri è tornata sulla proposta Onu di cessate il fuoco locali chiedendo maggiori dettagli prima di accettare) non aiuterà la coalizione, impantanata in una strategia di raid aerei e addestramento dell’esercito iracheno. Ieri il segretario alla Difesa Hagel, dopo la notizia della morte di Kassig, ha annunciato l’inizio dell’ennesimo programma di formazione delle truppe di Baghdad, le sole – secondo Washington – da lanciare in prima linea. Ma in Iraq, nonostante il fronte anti-Isis sia attivo dall’8 agosto, lo Stato Islamico non è stato frenato. Domenica il gruppo ha rivendicato l’attacco contro l’aeroporto della capitale, a cui sono seguite ieri due autobombe, esplose a Mashtal, area a est di Baghdad: 12 morti, 29 feriti.
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