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14/10/2018

Estote parati

“...Chi ha intuito che l’uomo della strada era stanco di programmi socio – economici e cercava soprattutto un’emozione calcistica, ha proposto di andare alle elezioni come si va alla partita: non con documenti politici ma con tamburi, striscioni e fischietti. Così ha ottenuto buoni risultati...”.

Una sintesi felice questa elaborata da Luigi Zoia, comparsa in un suo articolo “Benvenuti nell’epoca del risentimento” pubblicato dall’Espresso del 7 ottobre.

Nel testo in questione si premette che: “della politica non si può fare a meno: in qualche forma tornerà”.

Però vi si aggiunge: “La metamorfosi dell’Occidente viene dal profondo. E’ un errore pensare che durerà poco”.

Argomentazioni che richiedono l’interrogarsi, ancora una volta, sulle origini del fenomeno che stiamo vivendo, in particolare nelle vicende italiane.

Da dove proviene, quale meccanismo è scattato, per far sì che la percezione dell’agire politico sia così profondamente e rapidamente mutata?

La prima causa di questo fenomeno appare essere quella dell’assunzione di un dato di vera e propria egemonia del cosiddetto “pensiero unico”.

Ci siamo trovati improvvisamente al centro di una gigantesca espressione di “pensiero unico” del capitalismo che ha afferrato tutto il periodo dagli anni ’80 del secolo scorso ad oggi, causando effetti che risulteranno ancora duraturi nel tempo e ponendo così in atto quello che è stato giù definito come un vero e proprio “arretramento storico” .

Un “arretramento storico“ posto sia sul piano della crescita delle diseguaglianze (e di conseguenza nel concreto della fortissima riacutizzazione della contraddizione di classe dopo la fase di allentamento verificatasi nei trent’anni seguiti alla seconda guerra mondiale).

Disuguaglianze poste al livello già vissuto negli ultimi decenni dell’800 e nei primi del ‘900.

Disuguaglianze così profonde da mettere in discussione le stesse espressioni di agibilità democratiche raggiunte con il welfare state e le forme di Stato e di Governo (molto articolate fra loro) raggiunte in Occidente dopo la seconda guerra mondiale.

Nello specifico questo fenomeno della crescita a dismisura delle disparità economico – sociali si è accompagnato, per quel che ci riguarda, alla costruzione dell’Unione Europea. Una costruzione avvenuta per tappe forzate nella convinzione che di là del traguardo ci fosse una sorta di Regno di Bengodi fondato sulla globalizzazione di un mercato infinito: il quadro era bianco o nero, o si stava con il progresso o si era contro parteggiando per l’oscurità.

Tutto il pensiero “critico” accumulato tra il XIX e il XX secolo è stato obliato oppure si è pensato fosse crollato e coperto dalle macerie dell’URSS e del Muro di Berlino.

L’insieme d’ingiustizie e disuguaglianze derivanti dall’accettazione di questo “pensiero unico” ha rappresentato la causa principale di quello che è stato definito come ”rancore diffuso”.

Un rancore diffuso che ha preso “forma politica” attraverso la radicale messa in discussione del concetto stesso di “rappresentanza”.

Ha prevalso l’idea della “democrazia del pubblico”, della partecipazione diretta alle scelte al di fuori da una presenza d’intermediazione mediatoria (rappresentata principalmente ma non esclusivamente dai partiti), del rapporto diretto tra il Capo (o l’impersonalità del web abilmente gestito e manipolato) e le masse.

Nel solco di Le Bon si è passati rapidamente dalla “Democrazia del Pubblico” alla “Democrazia recitativa” (così definita da Emilio Gentile).

“Democrazia Recitativa” il cui significato profondo deve essere interpretato come quello di un rapporto tra “ceto politico” e “società” inteso alla guida di chi recita uno spettacolo e chi vi assiste, in sostanza “il pubblico” appunto.

Si è così compiuto il capolavoro di consentire spazio soltanto all’espressione del rancore: la più facile da interpretare in questa commedia degli orrori.

Rancore che ha le sue giustificazioni ma che si presenta come base per soggetti politici che lo interpretano in funzione dell’utilizzo del potere senza presentare mai un’idea di programma politico, ma soltanto di “contratto” con il popolo. Scrisse Croce del fascismo (che pure aveva contribuito a far passare nella logica dell’assorbimento e della “normalizzazione”): “il fascismo con il potere quale unico programma”.

Questo perché il potere è ineliminabile: ed è questa la ragione di fondo per la quale la politica tornerà.

La resa al “pensiero unico” e quindi al rancore si è così verificata perché accanto all’abbandono dei programmi socio – economici di cui scrive Zoia, si è verificata la perdita di quanto si accompagnava a quei programmi: l’utopia del cambiamento e l’affermazione di un sistema di valori che riconoscevano quell’utopia ma che, insieme, dovevano essere applicati anche nel concreto del quotidiano.

Nacque così, ad esempio e per restare in Italia, la Costituzione repubblicana.

Si è verificato un ulteriore passaggio in quello che abbiamo definito “arretramento storico” che ci ha riportato al notabilato politico e alla risposta da fornire esclusivamente agli interessi che riguardano quel notabilato in termini di potere e di privilegi.

Conservazione degli interessi e dei privilegi che si verifica in maniera molto più marcata di quanto non avvenisse al tempo della “partitocrazia” (definizione, tanto per ricordare, già usata da Maranini fin dagli anni del secolo scorso ’50)

Si dimostrerà nel tempo l’evidenza del sorgere di un’ulteriore espressione di frustrazione collettiva nel momento in cui si verificherà l’incapacità a trasformare le cose da parte di un progetto partito dal rancore e limitato alla “pars destruens”.

A quel punto sarà necessario essere preparati nel proporre un’alternativa che a fianco dei noiosi progetti socio – economici collochi il sentimento di un’elaborazione rivolta verso il futuro, di un disegno che riguardi il divenire sociale nel suo orizzonte strategico.

Su questo punto siamo davvero tutti impreparati: si tratterebbe di prenderne finalmente atto di questa impreparazione complessiva accantonando le nostre modeste supponenze, le nostre ridotte arroganze, le nostre stupide certezze.

Il “dovere del dubbio” torni a ispirare i luoghi più impegnati della riflessione politica.

In questo momento però sarà bene ricordare che non bastano buoni sentimenti espressi “in nome del popolo”: servono profondità di pensiero e autorevolezza (cultura più coerenza) nell’espressione.

Obiettivo: invertire la rotta nella percezione di massa dell’agire politico.

Ma ciò non potrà avvenire soltanto aggiornando la storytelling ma riorganizzando complessivamente sia la riflessione sia l’azione.

Torna a questo punto il tema del rapporto struttura/sovrastruttura e del tipo d’intermediazione e sintesi da realizzare in quel senso.

Gramsci avrebbe parlato d’imprescindibilità del partito nello Stato moderno, noi potremmo ricominciare a parlare dello stesso argomento (il partito) dentro a quell’idea già evocata di “ritorno alla politica”.

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