Un grottesco balletto si agita, in questi
giorni, intorno alla stesura e l’approvazione della NADEF. Al di là
della goffa propaganda del Governo, per altro prontamente smentita dai diversi passi indietro già fatti dalla maggioranza, la futura Manovra sarà ancora una volta all’insegna dell’austerità.
Ai cani da guardia della “stabilità” dei conti, tuttavia, non basta.
Ecco perché, come accade ciclicamente, si riaffaccia sulla scena lo
spauracchio della catena “debito – deficit – interessi”.
Una banalità molto radicata, ed una delle
argomentazioni salienti dei critici della spesa in deficit, e quindi
dell’accumulazione di debito pubblico è: “poiché abbiamo molto debito
pubblico pregresso, dobbiamo spendere moltissimo per interessi: se avessimo avuto meno debito accumulato, oggi potremmo spendere di più per l’economia e fare tante cose buone”.
Nel nostro caso il deficit, previsto al 2,4% del PIL per il prossimo
anno, implica in realtà un avanzo primario di circa l’1,4% del PIL.
Ricordando che l’avanzo primario è la differenza tra entrate ed uscite
dello stato, AL NETTO degli interessi sul debito, questo significa che
lo Stato italiano sta drenando e sottraendo risorse all’economia (ed
infatti la Manovra è univocamente nel segno dell’austerità). Se invece, ci dicono i liberisti ed i responsabili, avessimo un debito pubblico minore,
ad un deficit potenzialmente anche minore potrebbero corrispondere più
risorse da dedicare ad opere ed azioni pubbliche meritorie, poiché scialacqueremmo meno in interessi.
Semplificando all’estremo, sappiamo che,
in presenza di una Banca Centrale “indipendente” (come è il caso della
BCE) che non ha tra i suoi compiti quello di sostenere la spesa pubblica
di uno Stato, per lo Stato stesso c’è una sola via per effettuare spese
in eccedenza alle proprie entrate: collocare i titoli del proprio
debito pubblico sui mercati finanziari. Questo debito, nel corso degli
anni, va servito: si devono pagare infatti interessi su di esso. Proprio
perché la Banca Centrale non fa gioco di squadra, questo procedimento
può risultare estremamente costoso per le casse dello Stato. Poiché,
nella corrente architettura istituzionale europea, la spesa pubblica è
fortemente limitata e compressa, assistiamo ad uno spettacolo
indecoroso: lo Stato non può/non vuole spendere risorse per la
manutenzione di ponti ed autostrade perché, all’interno della gabbia
europea, le poche risorse disponibili vanno destinate al servizio del
debito.
Di fronte a questo capestro, cosa si può
fare? Apparentemente, le posizioni praticabili sono due: secondo la
prima, va attaccata la fonte degli interessi sul debito pubblico, cioè
il debito stesso. Per fare questo sarebbe necessario aumentare
considerevolmente l’avanzo primario. Per la seconda, si deve invece
ripudiare, a seconda delle formulazioni, il debito o gli interessi sullo
stesso, rifiutandosi di pagarli. La prima posizione, la più banale e mainstream, è sostenuta, tra i vari, da Cottarelli, che ha ribadito
la necessità di aumentare fino a circa il 4% del PIL l’avanzo primario,
in maniera tale da iniziare ad abbattere gradualmente il debito. A
fronte di qualche anno di avanzi primari alti, potremmo finalmente
liberare quello spazio per la spesa produttiva che ad oggi è occupato
dalla spesa per interessi. La solita retorica, insomma: sacrifici oggi,
ma risultati soddisfacenti domani. Siamo tuttavia in grado di riconoscere le infauste conseguenze
che tali politiche avrebbero sulla nostra economia: per mettere in atto
tale strategia, sarebbero necessari anni di tagli a spese pubbliche
quali sanità, istruzione, viabilità, trasporti e così via. Oltre alle
ovvie e dannose conseguenze dirette, ciò farebbe crollare il PIL ed
aumentare la disoccupazione. Con la paradossale aggiunta che, alla fine
della fiera, il rapporto debito/PIL sarebbe maggiore di quello che si voleva far scendere.
Insomma, quella che a prima vista potrebbe apparire una misura sensata e
necessaria, nasconde un contenuto potenzialmente devastante fatto di
austerità oggi per avere ancora austerità domani.
L’altra misura, quella riguardante il
ripudio del debito o il rifiuto di pagare gli interessi sul debito
stesso, ha una caratterizzazione politica forte: l’idea di fondo è che
il debito pubblico sia frutto di scelte fatte da governi antipopolari,
che ci lasciano in dote ricchi interessi da pagare ai capitalisti
detentori dei titoli a scapito dello Stato sociale. Il ripudio quindi
consentirebbe di liberarsi di un fardello indesiderato ed imposto da
classi dirigenti colluse col capitale, aprendo così lo spazio fiscale,
per esempio, a politiche espansive e di welfare per tutti. Questa
impostazione, tuttavia, sembra trascurare ed ignorare il ruolo del
debito pubblico: quest’ultimo è, lungi da quanto i liberisti di casa
nostra cerchino di farci credere, uno strumento essenziale di
costruzione dello Stato sociale e di gestione dell’economia. Immaginiamo
per un attimo di riuscire ad insediare un governo che voglia fare una
politica di pieno impiego, mirante ad abbattere la disoccupazione,
investire nell’economia green, dare sanità, istruzione,
sicurezza gratuite per tutti i cittadini. Entriamo, armi e bagagli, nel
Ministero dell’Economia, e stralciamo tutti i titoli del debito pubblico
sottoscritti da banche, assicurazioni, fondi d’investimento. Ebbene,
per attuare le politiche promesse, si richiederà un ammontare di deficit
che farebbe impallidire i livelli oggi considerati ‘pericolosi’.
Dovremmo, in altre parole, accumulare nuovamente una ingente quantità di
debito pubblico. E, attenzione, lo staremmo facendo per i fini politici
più nobili. Tuttavia, se non si controlla la Banca Centrale, questo
implica che il giorno dopo la presa del Ministero dell’Economia dovremmo
comunque presentarci con il cappello in mano sui mercati finanziari.
Anche questo nuovo debito, né ‘odioso’ né ‘illegittimo’, sarebbe a tutti
gli effetti del debito pubblico che richiede la corresponsione di
ingenti interessi, nella misura in cui la Banca Centrale è ancora
“indipendente” (e quindi indifferente a contrastare disoccupazione e
povertà). Se invece la Banca Centrale è sotto il controllo pubblico, il
vincolo sul debito pubblico si rilassa e viene a mancare l’artificiosa
dicotomia tra pagare gli interessi e fare la spesa pubblica “lodevole”.
Si possono fare entrambe le cose ed al contempo incrementare i livelli
occupazionali nel Paese.
Verrebbe forse a questo punto il
desiderio di buttarsi scoraggiati sul divano, arrendendosi all’evidenza:
se austerità e ripudio non funzionano, siamo condannati! Non vi è
scampo ad un destino fatto di una perennemente insufficiente spesa
sociale e di un pagamento continuo di interessi sul debito pubblico che
sottraggono risorse al resto dell’economia. Ci siamo retoricamente
chiesti, parlando di debito pubblico, se i soldi non ci fossero, o se non ce li facessero toccare.
È bene ricordare, però, che la scarsità delle risorse che lo Stato può
destinare al sostentamento dell’economia del proprio paese – scarsità
aggravata dal dover pagare interessi sul debito pubblico – non è uno
stato di natura, ma la polpetta avvelenata attraverso la quale le
istituzioni europee tengono a bada il conflitto distributivo,
disciplinando il mondo del lavoro con la minaccia della disoccupazione.
Per provare ad affrontare il problema, un passo necessario è tornare ad
avere una Banca centrale che può finanziare i disavanzi di bilancio
necessari al sostegno della economia e contestualmente sottrarre la
politica al ricatto dello spread. Il debito pubblico ritorna ad essere
ciò che è per la maggior parte dei Paesi avanzati: una fonte di risorse
per poter investire, distribuire servizi alla collettività, sostenere la
crescita economica. Tutto questo non risolve, di per sé, tutti i
problemi che attanagliano i Paesi che più soffrono per la perdurante
crisi. Di per sé, questo non conduce in automatico ad una società più
giusta. Una Banca Centrale sotto il controllo governativo è solo uno dei
necessari strumenti di politica economica, che come tale può essere
utilizzato a favore dei lavoratori a patto che essi si
organizzino politicamente per poter esercitare un controllo governativo
su di essa. È tuttavia un prerequisito obbligatorio per combattere
disoccupazione ed ingiustizie sociali, senza dover vacillare ai primi
colpi di spread.
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