Un vero scontro tra totani, falsi come giuda e bugiardi come un tenutario di banco delle tre carte. Con gli interessi reali nascosti come coltelli dietro la schiena.
Naturalmente tutta l’informazione di regime – e sottolineiamo tutta, a maggior ragione quella “liberal europeista”, ancora dominante – avalla questo conflitto come se fosse la guerra di Troia, dagli esiti magnifici o disastrosi, a seconda del punto di vista.
In questa continua recita a chi è più coerente e determinato (mentre ovviamente si tratta sottobanco), quello che va perso è il dato reale: come sta messa l’economia italiana? Come vive la maggior parte della popolazione? Quanto si è arricchito chi era già messo molto bene? E alla fine: il debito pubblico italiano è davvero l’unica variabile da tener d’occhio nel valutare lo stato del paese?
Per rispondere a qualcuna di queste domande tenendoci lontani dalle ideologie d’accatto (populisti versus “regolisti”, ossia presunti nazionalisti contro “multinazionalisti europeisti”), facciamo ricorso a questo notevole editoriale di Guido Salerno Aletta apparso stamane su StartMag. Due testate economiche che naturalmente nulla hanno a che fare con il movimento antagonista ma devono, per funzione svolta, raccontare la verità ai propri lettori (per lo più investitori, operatori di mercato e imprenditori).
Tre passaggi ci sono sembrati rivelatori:
A) “Mentre si va riducendo il passivo per i servizi, anche il flusso di interessi e dividendi dall’estero supera ormai costantemente gli esborsi: siamo diventati dei rentier, che finanziano le economie straniere, spesso nostre concorrenti.” Visto che, come paese, non ci guadagniamo nulla, ci sarebbe da chiedersi a chi finiscono in tasca “le rendite” assicurate da questa funzione. E quali sono “le regole” che hanno distorto a tal punto il meccanismo economico-finanziario da renderlo un “servizio” per altre economie (non necessariamente “nazionali”, è chiaro). Il sospetto che i trattati europei siano la fonte legale primaria di questa distorsione, come già sapete, è piuttosto forte.
C’è però anche un secondo passaggio che per un verso chiarisce le ragioni dell’aumento dello spread (ossia un calo dei prezzi dei titoli di Stato italiani, cui corrisponde un aumento dei rendimenti e dunque del “servizio sul debito” che lo Stato deve assicurare), per un altro spiega i timori circolanti sulla tenuta di alcune banche italiane (che hanno in pancia la maggior parte di quei titoli).
E quindi:
B) nelle banche italiane aumentano enormemente i depositi (quindi non manca loro la liquidità) ma c’è stato il “crollo delle sottoscrizioni in obbligazioni (-97 miliardi): questo è il frutto marcio della normativa sul bail-in, che sta rendendo sempre più complessa la trasformazione delle scadenze”.
Qui il sospetto diventa già certezza. Risparmiatori di ogni ordine e grado (a partire dalle società di gestione del risparmio, fondi pensione, ecc.) si tengono lontani dai titoli di stato o altre obbligazioni “nazionali” per il timore di esser chiamati a ripagare in parte l’eventuale fallimento della banca. Come successo per Banca Etruria, Popolare di Vicenza, ecc, sotto il governo Renzi. Il bail-in è una normativa dell’Unione Europea, dunque la sua responsabilità in questo è certa.
Infine la situazione del debito privato italiano. Nel dibattito politico-mediatico si parla solo di quello pubblico, indicato come il male assoluto. Quasi che i debiti dei privati siano invece pillole fortificanti. Qui, ricorda Salerno Aletta, la situazione degli italiani nel loro insieme (sappiamo benissimo che non siamo tutti uguali e che la maggior parte non ha quasi nulla depositato sul conto corrente; siamo fra questi...) è decisamente sorprendente.
C) “Lo stock del loro debito si è mantenuto stazionario al 61,4% del reddito, una percentuale enormemente inferiore a quella che si registra nella restante area dell’euro, pari al 94,9%: se esistono delle cicale, non sono di certo italiane.”
Riassumendo: siamo un paese che economicamente sta messo discretamente, produce, esporta molto di più di quanto importa, risparmia moltissimo e investe molto poco, consuma meno di quel che produce e finanzia le economie altrui. Come diavolo può accadere che pur restando ampiamente al di sotto del 3% di deficit una manovra che favorisce ancora una volta i più ricchi (e anche i mediamente ricchi) sia presentata – a seconda delle tribune – come “una manovra del popolo” oppure come “la causa di ogni catastrofe”?
Una possibile risposta sta nel titolo dell’editoriale L’Unione robotizzata precipita nel vuoto della ragione. E il sonno della ragione genera i Salvini, i Kurz, gli Orbàn e gentucola simile, se non di peggio ancora. Così come ha generato in precedenza i Dijsselbloem e i Moscovici, gli Juncker e i Dombrovskis (un laureato in fisica che recita ricette economiche senza capirne nulla).
Ma al fondo c’è lo scontro tra tipologie di capitale diverso per ruolo, funzione, dimensione e struttura (multinazionale o nazionale, da cui discendono le ideologie multinazionaliste o nazionaliste). Ed è uno scontro vero, giocato tutto sulla pelle nostra, ossia di lavoratori con qualsiasi tipo di contratto, disoccupati, studenti, pensionati, senza casa, migranti, ecc.
E’ uno scontro tra sovranisti impropri, diciamola come è. L’unica differenza è tra chi vuole che questa sovranità resti ai “mercati” (sostanzialmente finanziari) oppure torni in capo a “padroni” di piccolo-medio taglio, inevitabilmente dalla visione ristretta, “bassa”. Salviniana e dimaiana, insomma.
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Guido Salerno Aletta
Non è il replay del 2011, per l’Italia. La situazione del nostro Paese non è mai stata così solida strutturalmente dal punto di vista delle relazioni economiche e finanziarie internazionali, anche se viene taciuta.
Nessuno si prende la briga di leggere i dati, neppure quelli riassuntivi della bilancia dei pagamenti e della posizione finanziaria netta sull’estero. E neppure si guarda alla enorme formazione di risparmio interno, cui fa da contraltare il crollo del credito. Si cresce poco, ma si è sempre meno indebitati, imprese e famiglie. Si investe poco. Il risparmio primario del bilancio pubblico, poi, drena risorse dall’economia reale, ininterrottamente dal 1992 e con la sola eccezione del biennio nero 2009-2010: solo tra il 2017 e quest’anno sono stati 56,4 miliardi di euro.
Sono questi i nodi su cui la politica economica deve finalmente intervenire.
La bilancia dei pagamenti correnti dell’Italia è in strutturalmente attivo. La Banca d’Italia ha appena rilevato che, nei dodici mesi terminanti in agosto, il surplus di conto corrente è stato pari a 48,3 miliardi di euro (2,8% del pil), rispetto ai 45,7 miliardi nel corrispondente periodo del 2017. L’aumento è stato determinato dal miglioramento dei saldi dei servizi (-2,5 miliardi, invece che -3,0) e dei redditi primari e secondari (rispettivamente: 11,5 miliardi, da 10,9; e -14,5 miliardi, da -16,7). L’avanzo delle merci si è invece lievemente ridotto (53,7 miliardi, da 54,5). Il saldo attivo di parte corrente è cresciuto costantemente, passando dai 24,4 miliardi del 2015 ai 42,8 del 2016, ai 48,3 del 2017. Alla fine di quest’anno supererà i 50 miliardi di euro.
L’interscambio commerciale dell’Italia con l’estero, secondo quanto riportato dall’Osservatorio del Ministero per lo sviluppo economico, è passato dai 751 miliardi del 2008 agli 849 miliardi del 2017 (+13%). L’import è cresciuto da 382 a 401 miliardi (+5%) mentre l’export da 369 a 448 miliardi (+21%).
Per quanto riguarda la posizione finanziaria dell’Italia verso l’estero, alla fine del secondo trimestre 2018 risultava un saldo debitore di soli 59 miliardi di euro (-3,4% del pil) ridottosi di circa 65 miliardi (quasi 4% del pil) rispetto alla fine del primo trimestre dell’anno. Il miglioramento è stato determinato dall’avanzo di conto corrente e dagli aggiustamenti di valutazione: a seguito del rialzo dei rendimenti, il valore delle passività in titoli di portafoglio, in particolare dei titoli di Stato, è sceso complessivamente di circa 55 miliardi.
Per altro verso, nel Bollettino economico di ottobre, la Banca d’Italia ha rilevato che “gli investimenti dei non residenti in titoli di portafoglio italiani sono tornati positivi in luglio, mentre ad agosto si sono registrate vendite nette. In questo periodo, a differenza dei due mesi precedenti, l’andamento degli acquisti dall’estero di titoli pubblici ha in gran parte rispecchiato il profilo delle emissioni nette da parte del Tesoro (positive in luglio, negative in agosto), con il quale ha storicamente una forte correlazione”.
Anche la posizione finanziaria netta dell’Italia registra dunque un miglioramento strutturale, visto che ancora nel 2014 era passiva per il 25% del pil. Mentre si va riducendo il passivo per i servizi, anche il flusso di interessi e dividendi dall’estero supera ormai costantemente gli esborsi: siamo diventati dei rentier, che finanziano le economie straniere, spesso nostre concorrenti.
C’è poi il tema altrettanto fondamentale della formazione del risparmio, della raccolta bancaria e del credito. I dati forniti dall’Abi nel suo Monthly Rewiew di ottobre non lasciano adito ad equivoci: la raccolta complessiva dalla clientela residente cresce continuamente, passando dai 1.693 miliardi del settembre 2016 ai 1.724 miliardi del settembre scorso (+31 miliardi), con un incremento impressionante dei depositi a vista (+128 miliardi) ed un crollo delle sottoscrizioni in obbligazioni (-97 miliardi): questo è il frutto marcio della normativa sul bail-in, che sta rendendo sempre più complessa la trasformazione delle scadenze.
Come se non bastasse, nello stesso biennio è sceso drasticamente lo stock dei crediti erogati al settore privato, che comprende le famiglie e le società non finanziarie: è passato da 1.406 a 1.329 miliardi di euro (-77 miliardi, pari al 5% del pil).
Le famiglie stanno aumentando nuovamente la propensione al risparmio, arrivata all’8% del reddito disponibile lordo. Lo stock del loro debito si è mantenuto stazionario al 61,4% del reddito, una percentuale enormemente inferiore a quella che si registra nella restante area dell’euro, pari al 94,9%: se esistono delle cicale, non sono di certo italiane. Anche in rapporto al pil, il debito delle famiglie italiane è molto più contenuto rispetto al resto dell’Eurozona: è pari al 41,1%, rispetto al 57,8%. Il servizio del debito (interessi + rimborso delle quote di capitale) si è intanto stabilizzato attorno al 10% del reddito.
Se dunque il risparmio delle famiglie italiane tende ad aumentare, mentre il loro indebitamento è stabile, inevitabilmente a patirne sono i consumi: ed infatti, nonostante quest’anno il loro reddito disponibile stia salendo molto più che nel 2017 (rispettivamente +1,19% e +0,53%), l’andamento della spesa per consumi si sta dimezzando (da +1,51% a +0,66%). Le famiglie italiane sono attanagliate dalla preoccupazione per il futuro: d’altra parte, l’indice del reddito disponibile, che era pari a 102,6 nel 2009, ancora nel secondo trimestre di quest’anno era inchiodato a quota 98,7.
L’andamento del debito delle imprese italiane è assai più deprimente: considerando le diverse forme di finanziamento (titoli, prestiti bancari a breve ed a medio e lungo termine, altri prestiti) è ormai pari solo al 71% del pil. C’è stato dunque un calo di oltre 10 punti rispetto all’82% registrato in media nell’intero periodo 2009-2013. Hanno pesato soprattutto la contrazione dei prestiti bancari a breve (-7 punti) e quella dei prestiti a medio-lungo (-4 punti).
C’è tanto da ragionare, dunque. Sulle politiche di bilancio adottate in Italia dal 1992 in avanti, con l’intento di tagliare il debito pubblico attraverso l’avanzo primario, per capire se siano state davvero utili, ovvero se non abbiano mortificato inutilmente la crescita rallentando quindi il raggiungimento dell’obiettivo cui erano preordinate. C’è il tema della deflazione salariale e della flessibilità del mercato del lavoro, su cui si è fondato in tutta Europa il processo di recupero della competitività, per ampliare i margini di profitto tagliando i costi del personale senza procedere agli investimenti su prodotti, processi e competenze dei lavoratori, fattori indispensabili per migliorare la produttività. La moderazione salariale era già stata un mantra dai tempi della concertazione tra governo e parti sociali, ed aveva determinato ritardi nella crescita.
Si sono chiusi gli occhi, di recente, anche davanti ad una politica monetaria eccezionalmente accomodante, il Qe, che avrebbe dovuto portare l’inflazione ad un livello vicino ma non superiore al 2%, ma che invece ha portato risorse solo ai mercati finanziari che ora si trovano in debito di ossigeno. Non è un caso che di fronte alla politica di riduzione di liquidità condotta dalla Fed insieme al rialzo degli interessi su dollaro, cui ora si aggiunge la fine del Qe, l’economia globale rallenta mentre le Borse danno segni di profonda incertezza.
Si è fatta, in Europa, una politica bancaria tutta fondata sui pilastri di capitale, sui buffer di liquidità, sulle regole per ammortizzare i crediti in sofferenza e quelli che potrebbero non essere ripagati, forzando i tempi ed i costi per lo smaltimento degli Npl, determinando un pericolo deleveraging.
Si assiste a reazioni pavloviane: il maggior deficit pubblico previsto nella Nota di Aggiornamento del Def, invero di entità modestissima, sarebbe foriero di una destabilizzazione catastrofica. Ci si accusa di rimettere in pericolo la costruzione europea, sfidando platealmente le sue regole e soprattutto minandone la legittimazione sociopolitica. D’altra parte, a Bruxelles, la sordità è di casa: le regole non possono essere messe in discussione, né direttamente né indirettamente. Prova ne è il fatto che è caduta in un lago di silenzio la proposta del governo italiano, contenuta nel documento predisposto dal Ministro per le politiche europee Paolo Savona, intitolato “Una politicaa per un’Europa diversa, più forte e più equa”, in cui si chiede la costituzione di un Gruppo di riflessione ad alto livello su tutta una serie di questioni, ivi comprese quelle relative alla definizione dinamica del deficit massimo ammissibile ed all’abbattimento del debito eccedente il rapporto del 60% sul pil.
Lo scontro, violentissimo, che sta caratterizzando in questi giorni i rapporti tra il governo italiano e la Commissione Europea in ordine alla politica di bilancio, per via della consistente deviazione rispetto all’obiettivo del pareggio strutturale previsto dal Fiscal Compact, con le conseguenti tensioni sullo spread sui titoli italiani ed il downgrading già deciso da parte di una agenzia di rating, ha un carattere politico ed ideologico.
Si doveva ragionare: partire dalla analisi di quanto è successo in questi anni, e riconoscere con onestà gli sforzi straordinari di consolidamento compiuti dall’Italia nonostante una massa di normative penalizzanti e di vincoli apodittici. Serve maggiore crescita. Ed invece, ancora una volta ci troviamo di fronte ad una Unione robotizzata, incapace di riflettere sui risultati derivanti dalle regole che ha adottato, e sugli errori compiuti. E’ questo il vero baratro in cui sta precipitando, il vuoto della ragione.
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