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07/12/2018

La battaglia No Tav in Val di Susa: un fronte di lotta internazionalista

“Il Movimento No Tav da quasi 30 anni promuove le ragioni dell’opposizione alla Torino-Lione, con manifestazioni, azioni di lotta, studi e documentazioni, libri e conferenze pubbliche. Dal principio si è chiesto un confronto tecnico che, privo di pregiudizi ed interessi di sorta, potesse basarsi sui dati e prevedere tra i diversi esiti quello dell'”opzione zero”. Tutto questo non è mai stato permesso dai vari governi che negli ultimi trent’anni si sono susseguiti nel nostro paese, senza alcuna distinzione di bandiera od orientamento. Per contro, laddove le ragioni non venivano ascoltate, si è deciso di imporre l’opera con la forza, sulla testa di decine di migliaia di valsusini”, scrivono gli esponenti del Movimento No Tav in una nota. 30 anni di lotta che anche quest’anno vengono commemorati l’8 dicembre, una data storica e dalla duplice valenza per il movimento NOTAV che celebra, da un lato, la liberazione di Venaus – al grido di ‘A sarà dura’ – dal primo tentativo di cantiere messo in atto nel 2005 dalla società italo-francese Lyon-Turin Ferroviaire (LTF), e, dall’altro, la 10a Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte e in difesa del pianeta. In una data così carica di significato ci sembra giusto ricordare perché si lotta ma soprattutto perché la lotta NOTAV non è solo una lotta italiana ma una lotta europea.

Occorre infatti ricordare che se oggi si parla ancora di TAV è perché “ce lo chiede l’Europa”. Ma cosa ci chiede esattamente l’Europa e perché ce lo chiede? Per rispondere a questa domanda occorre andare indietro nel tempo; indietro di circa 50 anni e capire le condizioni storiche di emergenza del progetto di alta velocità Torino-Lione, che in fondo non è che il risultato della profonda ristrutturazione neoliberale dei servizi di trasporto ferroviario messa in atto a livello europeo.

A partire dalla fine degli anni ‘70, le riforme neoliberali del settore pubblico hanno incoraggiato la deregolamentazione e smantellamento delle imprese pubbliche e, così facendo, hanno cercato di ridurre il ruolo dello Stato nell’economia liberalizzando e privatizzando i servizi pubblici (Esposito, Ferlie e Gaeta 2018). Come spiegato dalle Nazioni Unite (2001: 32), l’enfasi di queste riforme è stata “sul mantenimento della stabilità macroeconomica, sull’abbassamento dell’inflazione, sul taglio della spesa per il disavanzo e sulla riduzione delle competenze e dei costi delloStato”.

In Europa, molte imprese di proprietà statale hanno subito un profondo processo di ristrutturazione a fronte delle riforme di liberalizzazione promosse a livello sovranazionale dall’Unione Europea (UE). Come spiegato da Florio (2013: 5-8), le industrie di rete – nei settori dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni – sono state in prima linea nel cambiamento: “Altrove, negli Stati Uniti, in America Latina, in Asia e nelle economie precedentemente pianificate, ci sono state riforme simili.

Tuttavia, forse da nessuna parte tali riforme sono state attuate in modo così coerente come nell’UE. Negli ultimi due decenni – prima nel Regno Unito e poi successivamente in tutti gli altri Stati membri dell’UE – i governi si sono sempre più allontanati dalla fornitura diretta di servizi pubblici, dalla proprietà delle imprese e dai monopoli. I ministeri e le autorità di regolamentazione indipendenti hanno dimostrato una maggiore dipendenza dai meccanismi di mercato e ora considerano i fornitori di servizi di rete come attori di mercato […], il punto critico di cambiamento politico è stato raggiunto negli anni ’80, dopo gli sconvolgimenti sociali e politici degli anni ’70 e i gravi shock petroliferi che hanno destabilizzato le finanze pubbliche “.

Per quanto riguarda il settore ferroviario, occorre ricordare che nel dopoguerra, l’organizzazione tradizionale della maggior parte delle ferrovie europee era quella di un monopolio verticalmente integrato di proprietà statale. Durante questo periodo, i servizi ferroviari sono gestiti come un monopolio naturale a fronte degli elevati costi fissi associati alla fornitura delle infrastrutture e dell’importanza di offrire trasporti pubblici accessibili a tutti i livelli di reddito (Drew e Ludewig, 2011). Le cose cambiano a metà degli anni ’80 quando – il 7 gennaio 1985 – si insedia la nuova Commissione Europea guidata dal francese Jacques Delors.

A seguito di una denuncia del Parlamento europeo (sostenuta dalla Commissione Delors), il 22 maggio 1985 una sentenza della Corte di giustizia europea invita i governi degli Stati membri a intervenire sulla politica europea di trasporto e, dunque, a dare avvio alla liberalizzazione dei servizi pubblici di trasporto all’interno dei confini nazionali degli Stati membri. La Corte insiste affinché i servizi (nazionali e internazionali) per passeggeri e merci siano aperti alla concorrenza. L’anno seguente, tra il 17 e 28 febbraio 1986, i governi di 12 Stati membri firmano l’Atto Unico Europeo (AUE), stabilendo cosi’ l’obiettivo di creare un mercato unico entro il 31 dicembre 1992. A tal fine, la Commissione europea adotta circa 300 direttive per smantellare le barriere fisiche, politiche e fiscali che ostacolano la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone (le cosiddette “quattro libertà fondamentali” nella retorica dei riformatori). I servizi di trasporto ferroviario per passeggeri e merci fanno parte di questo ambizioso piano di riforma, che nel 1992 è ulteriormente rafforzato con l’approvazione del trattato di Maastricht, mirante alla creazione in Europa di un mercato unico dei trasporti.

In questo quadro, dall’inizio degli anni ’90 in poi, l’UE dà avvio a un’intensa produzione normativa finalizzata alla creazione di un unico, efficiente e competitivo mercato europeo dei servizi ferroviari. L’obiettivo di questa legislazione è di: (1) separare la gestione delle infrastrutture dalla gestione delle operazioni di trasporto; (2) aprire i mercati ferroviari nazionali alla concorrenza internazionale; e (3) promuovere l’interoperabilità e l’armonizzazione tecnica delle reti infrastrutturali nazionali al fine di incoraggiare lo sviluppo di un sistema ferroviario integrato in grado di fungere da base fisica per un unico mercato ferroviario europeo.

Per contribuire alla realizzazione del punto (3), l’articolo 129 B del trattato di Maastricht del 1992 introduce una nuova politica di investimenti infrastrutturali avente come obiettivo la creazione di una Rete Trans-Europea di Trasporto (RTE-T). Grazie alla politica RTE-T, l’UE mette a disposizione dei governi degli Stati membri risorse finanziarie per la creazione di uno spazio ferroviario europeo unico, senza frontiere interne. In particolare, questi finanziamenti hanno lo scopo di contribuire alla rimozione delle barriere fisiche e tecniche tra gli Stati membri dell’UE per consentire ai treni di viaggiare ad alta velocità e senza ostacoliattraversole diverse reti infrastrutturali nazionali.

Infatti in passato, a causa delle differenze tra le reti infrastrutturali nazionali, capitava spesso che con i treni internazionali il motore doveva essere cambiato alla stazione di frontiera. In casi particolarmente difficili i passeggeri e/o le merci dovevano cambiare treno. Ancora, diverse larghezze di binario, diversi standard di elettrificazione o di sistemi di sicurezza e segnalamento rendevano più difficile e più costoso il passaggio di un treno da un paese all’altro. Tutte queste difficoltà logistiche imponevano dunque la necessità di armonizzare i sistemi infrastrutturalinazionali; altrimenti il mercato europeo dei trasporti risultava frammentato e nessuna iniziativa di liberalizzazione in atto poteva essere veramente efficace dal momento ogni rete nazionale di trasporto poteva essere utilizzata solo da quegli operatori nazionali che avevano un apparato rotabile conforme agli standard del mercato nazionale.

In questo contesto di ristrutturazione infrastrutturale ferroviaria, nel 1996 la Commissione europea istituisce il programma di investimenti RET-T. Grazie a questo programma, l’UE mette miliardi di euro a disposizione dei governi nazionali per realizzare centinaia di nuovi progetti infrastrutturali che permettano a merci e persone di viaggiare sempre più velocemente e senza ostacoli attraverso il continente e attraverso i nostri territori. Supressione dello European Round Table of Industrialists – potente lobby di industriali europei – il progetto Torino-Lione viene sin dall’inizio incluso nella lista di infrastrutture finanziate dall’UE e non vi uscirà mai più malgrado la tenace e motivata opposizione della popolazione valsusina. Sorte analoga tocca al progetto Stuttgart 21 in Germania, Basque-Y in Spagna e High-Speed2 nel Regno Unito.

Tutti questi progetti, pianificati e finanziati dall’UE con la collaborazione dei governi nazionali, sono oggi strenuamente osteggiati da popolazioni locali che sin dall’8 dicembre 2010 hanno deciso di unire le forze dando vita al Forum Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte. Ecco perché oggi non si celebra solo la vittoria NOTAV del 2005 a Venaus, ma anche la resistenza europea contro quelle politiche neoliberali di riforma del trasporto ferroviario che tentano in tutti modi di plasmare il mondo – e i territori che noi quotidianamente abitiamo e viviamo – a immagine e somiglianza di un capitale, il quale, paradossalmente, ha sempre più bisogno dello Stato – delle sue risorse finanziarie e dei suoi eserciti (come ci insegna l’esperienza di resistenza valsusina) – per continuare il proprio ciclo riproduttivo.

Riferimenti

Drew J. and J. Ludewig (2011), Reforming Railways. Learning from Experience, Hamburg: Eurail Press.

Esposito G., Ferlie E. and Gaeta G.L. (2018), The European Public Sectors in the Age of Managerialism, in «Politics», 38 (4): 480–499.

Florio M. (2013), Network Industries and Social Welfare, Oxford: Oxford University Press.

United Nations (2001), World Public Sector Report – Globalization and the State, Department of Economic and Social Affairs. New York: United Nations Publications

Fonte

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