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07/02/2019

Non solo missili: Washington punta anche al separatismo interno alla Russia

Messi (temporaneamente) da parte i piani bellici di sgretolamento dell’Unione Sovietica e del campo socialista, ieri, e della Russia, oggi, mediante azioni via terra; intrapresa la strada, rivelatasi abbastanza vincente, delle cosiddette “rivoluzioni colorate”, per portare dalla propria parte pressoché tutti gli Stati dell’ex campo socialista e la stragrande maggioranza delle ex Repubbliche sovietiche, attirandoli nel corpo stesso o nel raggio d’azione della NATO, non per questo l’Occidente abbandona il disegno di sbriciolamento interno della stessa Russia.

Non di rado, la messa a effetto di questo piano è organizzata con le forze e lungo le direttrici di alcuni di quegli ex “soggetti” dell’URSS. Se in qualche caso – basti pensare a Georgia, Ucraina o Paesi baltici – la cosa è chiara e da tempo consolidata, non cessa però anche il lavorìo tra le élite di altri ex bastioni di quello che era stato il primo Stato socialista. E si scava, al loro interno, a volte del tutto sfacciatamente, attraverso gruppi del fondamentalismo religioso (in particolare, nell’area centro-asiatica); altre volte, con strumenti più “sottili”, come è il caso delle “innovazioni linguistiche” in Kazakhstan o in Bielorussia; ma, comunque, puntando sempre sul nazionalismo più gretto, a partire da un terreno di coltura che fa apparire crisi, povertà, sfruttamento, sempre e esclusivamente frutto della “oppressione nazionale” da parte del “gigante vicino”.

Nei giorni scorsi, il presidente del partito liberale kazakho “Ak zhol” (Sentiero luminoso) ha proposto che alla vigilia del centenario della proclamazione della Repubblica socialista sovietica autonoma kazakha (in realtà, all’epoca, kirghiza) nella compagine della RSFSR, il Kazakhstan venga rinominato “Repubblica Kazakha”, o “Kazak eli” (Paese dei kazakhi), con la mezzaluna sulla bandiera nazionale, come già in Azerbajdzhan, Turkmenistan, Uzbekistan e risvegliando con ciò gli umori panturchi e islamisti e quelli nazionalisti del “Nuovo Kazakhstan”, che proclama i kazakhi (67,4% della popolazione, contro 20% di russi e numerose altre nazionalità) “unica nazione del paese”. Ciò, insieme alla “latinizzazione” dell’alfabeto e dei nomi di strade e villaggi, alla svolta “verso la gioventù”, serve a distogliere l’attenzione dalla svendita di risorse naturali (a multinazionali occidentali) e di interi territori (soprattutto a Cina e Kirghizija: si parla di 100.000 kmq), dal recepimento di scarti nucleari americani e giapponesi, dalla realizzazione di un centro di uranio a basso arricchimento, finanziato da USA, UE e Arabia Saudita a Ust-Kamenogorsk, ma, soprattutto, dalla magra condizione in cui le élite “compradore” locali hanno ridotto proprio la popolazione kazakha, più delle altre nazionalità del paese.

Su questo versante di penetrazione occidentale, i risultati non sono mancati. L’Ucraina, anche per le tragiche conseguenze e la risonanza a livello mondiale, è certo l’esempio più significativo. Come e peggio che in altre ex repubbliche sovietiche, il piano di rapina delle compagnie energetiche e agro-alimentari straniere si è accompagnato al disegno militare di accerchiamento della Russia, con la feroce aggravante di una guerra terroristica contro una parte della propria popolazione, quella del Donbass. Altrove, si è proceduto con approcci meno “cruenti”, con basi militari USA aperte (alcune poi chiuse) in repubbliche dell’Asia centrale ex sovietica; con la “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizija e quella “delle rose” in Georgia; con le svolte, in una direzione o in un’altra, di Tadzhikistan o Uzbekistan, che hanno puntato alternativamente su Cina, USA o Russia; con i tentativi di penetrazione islamisti, sponsorizzati da Washington, come era accaduto anche già sul finire dell’epoca sovietica nella regione di Fergana, nella vallata racchiusa tra Uzbekistan, Tadzhikistan e Kirghizija, con i sanguinosi pogròm della popolazione uzbeka contro la minoranza Ahıska-Türkleri. Oggi, la leadership kirghiza è così preoccupata per la situazione in Afghanistan – appena 260 chilometri attraverso il Tadzhikistan – che non solo chiede l’ulteriore ampliamento della base aerea russa di Kant, nel nord del paese, ma prevede l’apertura di un’altra, nella parte più problematica della regione, in prossimità proprio di quella valle di Fergana.

E, così come ai confini, anche all’interno stesso della Russia il piano d’attacco è quello di puntare sulle spinte separatiste che, in generale, assumono a massa di manovra settori di popolazione ridotti in condizioni economiche e sociali critiche, aizzati da ristrette cerchie di affaristi travestiti da “élite politiche”, spinte queste ultime a loro volta dal vecchio slogan eltsiniano del “prendetevi quanta autonomia potete”, rinverdito a uso e consumo dei disegni d’oltreoceano. Non va dimenticato che nella Federazione Russa sono comprese oltre 180 nazionalità – oltre alle più numerose, quali tatari, ceceni, ucraini o bashkiri, si va dai daghestani ai kabardini, dagli osseti, ai circassi, ingushi, karachaevi, balkari, calmucchi, careli, darghini, kazi-kumukhi, kumyki, chuvashi, jakuti, per dire solo le più note – e che scintille di “autonomismo” non hanno via via mancato di manifestarsi in alcune delle aree più cruciali dei confini della Federazione.

Dunque, come ricorda Julija Vitjazeva su news-front.info, ecco che la presidente della Commissione esteri della Rada ucraina, Hanna Gopko, sentenzia che la liberazione “dei popoli asserviti dall’impero russo” è un dovere morale e una missione del mondo libero. Ragion per cui, dato che i popoli delle Repubbliche della regione del Volga “stanno combattendo attivamente” per le loro lingue e ognuno di essi cerca di preservare la “propria identità nazionale”, le strutture “europee e internazionali devono intervenire” a difesa dei popoli della regione del Volga. La “distanza tra Kharkov e la Mordovija è di appena 500 km; le repubbliche del Volga sono parte dell’Europa” afferma la Gopko.

Ormai da decenni il disegno generale non è un segreto. Più recentemente, nel 2015 la cosiddetta “CIA segreta” (Stratfor: Strategic Forecasting) aveva pubblicato il rapporto “Il mondo nel decennio 2015-2025”, in cui si delineava il destino finale della Russia. Un anno fa, il politologo Vadim Bondar osservava che “il rapporto Stratfor giudica improbabile “che la Russia possa continuare a esistere nella forma attuale ancora 10 anni”. In questa prospettiva, ecco che si mette a punto un vero e proprio “cordone sanitario” – “Anaconda”– ai suoi confini: a ovest, “Polonia, Ungheria e Romania cercheranno di riprendersi le regioni perse” alla fine della guerra; a sud ci saranno problemi con il Caucaso settentrionale; in Asia centrale si accentuerà la penetrazione islamista; a nord-ovest, la Karelia cercherà di tornare nella compagine finlandese, come prima del 1940”.

Ora, è chiaro che ogni paragone storico tra la Russia di oggi e quella di cento ani fa sarebbe semplicemente assurdo, non solo per ragioni temporali, ma soprattutto politiche; ma, volendo ricorrere a quanto detto da Iosif Stalin, non ci sono dubbi che la separazione delle periferie dal centro della Russia, significherebbe “l’asservimento imperialista per le regioni periferiche”. Non certo, perché, a un secolo di distanza, “gli interessi delle masse popolari dicono che la rivendicazione della separazione delle regioni periferiche nella fase attuale della rivoluzione è profondamente controrivoluzionaria” (Stalin), ma perché, oggi, ciò implicherebbe, ipso facto, il rastrellamento delle loro ricche risorse da parte di accaparratori locali e stranieri e il loro aggiogamento al carro euro-statunitense.

Tornando a noi, è dunque possibile che la Gopko – o, per bocca sua, chi da settant’anni punta sulle regioni ex sovietiche a maggior tendenza separatista – abbia deciso di cominciare con quell’area lungo il Volga, dato che il Bashkortostan (capitale Ufà), insieme a Tatarstan (Kazan), Marij Él (Joshkar-Ola), Mordovija (Saransk), Udmurtija (Izhevsk) e Chuvashia (Ceboksary) – le sei repubbliche facenti parte, insieme ad altre 8, tra regioni e territori, del Distretto federale del Volga – oltre a essere discretamente ricche di risorse naturali, hanno in comune con l’Ucraina una tradizione storica adatta ai piani USA.

Al pari infatti di reparti quali i battaglioni “Roland” e “Nachtigall”, o della Divisione SS “Galizia”, in Ucraina, nella regione del Volga i nazisti avevano dato vita alla cosiddetta Legione “Idel-Ural” (dal nome della repubblica autonoma sorta per pochi mesi nel 1918 nella compagine della RSFSR e la cui riapparizione i nazisti avevano fatto balenare come protettorato, per arruolare i tatari del Millijat Medzhlis) forte di sette battaglioni e composta per la maggior parte di tatari e bashkiri, anche se non mancavano udmurti, chuvashi, mari, mordovi e altre etnie dell’area del Volga e degli Urali.

Molto più prosaicamente, oggi, rispetto alle comuni “glorie“ storiche ucro-tatare, per bocca dei deputati ucraini parlano i capitali occidentali, interessati al fatto che il 70% dell’industria petrolifera russa sia concentrata nel Bashkortostan, il 90% della produzione di petrolio e gas, stagno, oro, platino, nei distretti autonomi di Jamal-Nenets e Khanty-Mansij-Jugra, il 90% dell’uranio nella Repubblica di Komi. E non è una novità che Washington preferisca fare affidamento su forze interne i cui predecessori si sono a loro tempo distinti per “intraprendenza” antisovietica. Fatto sta, che il comando di quella riesumata legione “Idel-Ural libero”, acquartierato a Kiev, ha già inaugurato una sezione in Gran Bretagna e sta aprendone altre in USA, Canada, Turchia e Polonia. Il suo megafono, “Idel.Realtà”, non è che un distaccamento di “Radio Svoboda” e l’obiettivo a più “largo respiro” sarebbe quello di una “Repubblica popolare degli Urali”, i cui abitanti sono al momento confinati a Kiev.

E’ là che, a gennaio 2014, al culmine di majdan, il tataro-ucraino Navis Kashapov esortava i “tatari, i popoli del Volga, degli Urali e del Caucaso ad agire sul modello di ciò che fanno oggi gli ucraini... L’Ucraina europea e democratica è una minaccia mortale per Putin. La sua stessa esistenza dà speranza ai popoli delle repubbliche nazionali di Russia ... La lotta di liberazione nazionale dei popoli e il corso della storia porteranno inevitabilmente alla formazione di Stati nazionali nel territorio della Russia”. In effetti, tra gli attivisti di majdan, insieme ai tatari di Crimea (tra cui anche membri di “Hizb ut–Tahrir al-Islami”), c’erano fascisti e nazisti russi del “Wotan Jugend”, nazionalisti di “Russi”, di “Iniziativa nazionale socialista”, “Movimento nazional-socialista russo”, “Unione slava”, accanto ad altre minoranze nazionali russe.

Gli analisti yankee non hanno mai smesso di puntare sulle vecchie frange anticomuniste e antisovietiche che erano uscite allo scoperto in URSS con l’aggressione nazista. Durante la guerra, circa 70 milioni di sovietici vennero a trovarsi nel territorio occupato dai nazisti e, secondo lo storico Kirill Aleksandrov, oltre un milione e trecentomila di essi furono arruolati nei ranghi della Wehrmacht. Tra questi, quasi 400.000 russi e cosacchi, 250.000 ucraini, oltre 250.000 baltici (in maggioranza lettoni, ma anche estoni e lituani), 180.000 centroasiatici, e decine di migliaia dal Caucaso settentrionale (soprattutto ceceni e ingushi), oltre a georgiani, armeni e azeri. E ancora: bielorussi, tatari del Volga e di Crimea, kalmyki. Oggi, a Langley si continua a puntare sulle stesse motivazioni “nazionali”; per ora, spesso senza armi alla mano.

Quello delle tendenze, o meglio, dell’esistenza di alcune frange d’opposizione, per lo più marginali, che indirizzano le proprie motivazioni sulle aspirazioni nazionaliste e separatiste, è un problema che non era stato del tutto superato nella stessa Unione Sovietica e che era comparso in forme anche cruente qua e là con la perestrojka gorbacioviana, per poi esplodere fragorosamente con il putsch eltsiniano.

Il 1 luglio 1993 (per la verità, sopravvisse appena fino al 9 novembre successivo) in quella che ora è la regione di Sverdlov era stata ad esempio proclamata la “Repubblica di Siberia” e nell’area degli Urali veniva propagandata l’idea di una “Repubblica federativa dei Grandi Urali”. Il “Califfato del Volga”, attivo per tutti gli anni ’90 e inizi 2000, agitava gli slogan “io ricordo il 1552!” e “olocausto del popolo tataro: 1552!” (l’anno in cui lo zar Ivan IV aveva conquistato Kazan). Al sud, invece, si parlava di un “Emirato caucasico” e di uno stato islamico nell’area di Cecenia, Ingushetija, Daghestan, Kabardino-Balkarija e Karachaevo-Cerkessija, con diramazioni in Tatarstan e Bashkirija. Ancora nel 2009, i cosacchi del Basso Kuban avevano minacciato di rifiutare la cittadinanza russa.

Questa “smania nazionale”, comunque, messa apparentemente a tacere con le guerre cecene – ma c’erano gli oleodotti al centro delle rivendicazioni “nazionali” di Dzhokhar Dudaev – ha assunto altre caratteristiche e forme, ma non sembra affatto scomparsa e proprio su di essa, come a uno dei percorsi privilegiati d’intervento, puntano da alcuni decenni gli strateghi della CIA e delle sue diverse ramificazioni operative, che disegnano lo scenario secondo loro auspicabile per il futuro dell’attuale Federazione Russa.

Dunque, se qualche abitante della Repubblica di Sakha (meglio conosciuta come Jakutija, con un territorio di oltre tre milioni di kmq, di poco inferiore all’India, ma con meno di 1 milione di abitanti) aspira all’unione con la Cina, stigmatizzando la cattiva amministrazione federale russa, ecco che non si fa mistero di una discreta “invidia” suscitata dai trasferimenti federali e dalle aliquote di favore applicate a soggetti quali Cecenia, Tatarstan o Bashkortostan: tanto per raffreddarne i bollori “nazionali”. Significativo, ad esempio, il diverbio sorto proprio in questi giorni tra genitori e direzione della scuola “Аjyy Кyhата” di Jakutsk, che si era inizialmente rifiutata di iscrivere bimbi russofoni.

Per quanto riguarda la stragrande maggioranza della popolazione, in realtà, molti media riconoscono che questa non ha affatto intenzioni separatiste; ma, quando la situazione economica non è esattamente rosea (è da sempre un modo di dire acquisito che “Mosca non è la Russia” e che la ricchezza del paese è ferma nella capitale) quale argomento di più afferrabile immediatezza se non quello secondo cui il “centro affama le periferie”, o quello, inverso ma equivalente, che “la nostra regione ricca di risorse è stanca di nutrire il centro accaparratore”? Detto questo, non è che il “centro” se la passi meglio. I media scrivono che, secondo gli standard mondiali, quasi metà della popolazione (centro e periferie) è povera, 20 milioni di persone vivono ufficialmente oltre la soglia di povertà e il 34% degli abitanti rientra nel cosiddetto “gruppo a rischio”: se un membro della famiglia si ammala o perde il lavoro, l’intero nucleo finisce in miseria. Non si sottrae nemmeno il mondo accademico di Mosca: un Doktor Nauk (Dottore in Scienze, il secondo grado più alto della scala accademica, dietro a Kandidat Nauk, cioè Ph.D) con stage di 40 anni all’Accademia delle Scienze, ha uno stipendio ufficiale di 32mila rubli, quando la media degli stipendi (a Mosca) supera i 60mila rubli.

Anche se oggi la situazione appare alquanto diversa da quella anche solo di una decina d’anni fa – la relativa libertà garantita alle élite politico-affaristiche locali di arricchirsi con le risorse dei territori, le rende più restie ad assecondare le spinte separatiste – nessuno esclude che un eventuale scoppio in uno dei punti più caldi, possa generare reazioni a catena. Oggi, difficilmente si sentirà parlare di distacco della Siberia, come 7-8 anni fa, quando i sondaggi davano il 60% degli interpellati favorevoli all’autonomia e il 25% all’indipendenza, mentre l’85% si dichiarava siberiano e solo il 12% russo. Nonostante ciò, chi può giurare che i Servizi yankee non stiano tuttora lavorando in questa direzione, specialmente nelle regioni più ricche di risorse naturali, quali i distretti autonomi di Komi, Jakutija, Jamalo-Nenets (superficie più che doppia dell’Italia), Khanty-Mansi o Tajmyr? Oppure non cerchino proseliti nelle aree agli estremi confini occidentali e orientali, nelle quali gli osservatori russi, più che sulle ricchezze naturali, pongono l’accento su fattori esterni: è il caso delle regioni di Kaliningrad, Amur, Sakhalin, dei territori di Primore e Khabarovsk o delle isole Kurili. Per quanto riguarda queste ultime, anni fa, gruppi di abitanti avevano raccolto firme per la cessione delle isole al Giappone, mentre oggi, al contrario, i recenti abbocchi russo-giapponesi hanno mostrato l’indisponibilità della popolazione locale a un’eventuale cessione di sovranità. Ma, in generale, l’estremo oriente russo, data la crescente importanza economica dell’Asia, sembra tendere economicamente verso Cina, Giappone, Corea e regione del Pacifico, più che verso Mosca; mentre Kaliningrad, lontana 800 km dalla più vicina città russa di una certa importanza (Pskov), si orienta verso Polonia e Germania e c’è chi chiede di tornare al nome tedesco di Könisberg. In generale, se la ricchezza finanziaria è concentrata a Mosca, sono però Estremo Oriente e Siberia – circa 2/3 del territorio russo – che costituiscono la fonte inesauribile delle risorse fondamentali del paese, in primo luogo petrolio e gas.

Ben consapevoli di cosa sia la Russia di oggi, di quanto pesi il potere del capitale, là, come nel resto delle potenze che la assediano politicamente e militarmente, ricordiamo però quanto affermava cento anni fa il Commissario del popolo alle nazionalità: “le regioni periferiche della Russia, le nazioni e le stirpi che abitano queste regioni, come ogni altra nazione hanno il diritto imprescindibile alla separazione dalla Russia ... Ma qui non si tratta dei diritti delle nazioni, indiscutibili, ma degli interessi delle masse popolari sia del centro che delle regioni periferiche ... le questioni nazionale e coloniale sono inseparabili dalla questione della liberazione dal potere del capitale”, tanto a ovest, quanto a est. L’esplosione del separatismo coincisa con la fine dell’URSS ne è testimonianza. Una separazione che dovesse favorire le mire imperialiste di una potenza a danno di un’altra, non farebbe che elargire qualche briciola di ricchezza a un pugno di borghesia locale, affamando il resto della popolazione. L’Ucraina nazigolpista ne è l’esempio lampante.

Riuscirà il Cremlino, proseguendo sulla strada che arricchisce spropositatamente le oligarchie affaristiche – e, in molti casi, anche clan speculativi in concorrenza con esse – mentre taglia fondi per sanità, istruzione, pensioni, settori industriali un tempo all’avanguardia, a impedire che prenda davvero piede l’approccio yankee all’erosione della Russia?

Secondo l’ultimo sondaggio del Centro Levada, circa il 45% dei russi ritiene che il paese stia procedendo in una direzione sbagliata, mentre il 34% (era il 18% nel 2018 e il 14% nel 2017) biasima l’attività di Vladimir Putin. Da parte sua, l’ufficiale VtsIOM registra che il 61% dei russi prova un senso di vergogna per “l’eterna povertà e l’insicurezza”. Il PCFR ha denunciato alla Duma il rifiuto del governo ad applicare la tassazione progressiva sui redditi e l’insistenza a voler mantenere una flat tax al 13%.

Come sospirava lo scritturale Bertin di Arnold Zweig “A quanto pare, non tutto è in regola nella repubblica dell’Universo”.

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