Il rischio di un precocissimo fallimento dell’accordo di pace per
l’Afghanistan, firmato meno di una settimana fa a Doha tra gli Stati
Uniti e i Talebani, ha subito innescato un acceso dibattito su quale
delle due parti sia da ritenere responsabile per i recenti episodi di
violenza che hanno messo in crisi il fragile processo diplomatico. Poco
sorprendentemente, la stampa ufficiale e il governo di Washington hanno
puntato il dito contro gli “studenti del Corano” per avere violato la
sorta di tregua appena negoziata. Ad uno sguardo più attento, tuttavia,
appare evidente come ci si trovi di fronte a un nuovo mancato rispetto
degli impegni da parte americana, col pericolo di riaccendere il
conflitto proprio mentre all’orizzonte cominciava a intravedersi il
miraggio di una soluzione pacifica.
Mercoledì, le forze di occupazione USA in Afghanistan hanno
bombardato un’unità dei Talebani in risposta a un’impennata degli
attacchi che questi ultimi avevano condotto nei due giorni precedenti
contro postazioni delle forze di sicurezza di Kabul in varie parti del
paese. Il blitz ha seguito di un giorno la storica conversazione
telefonica tra il presidente Trump e il capo della delegazione talebana a
Doha, Abdul Ghani Baradar, durante la quale sarebbe stata ribadita la
volontà di rispettare i termini dell’intesa.
Le operazioni talebane hanno fatto decine di vittime e sono state a
loro volta una ritorsione contro il rifiuto del governo del presidente
Ashraf Ghani di approvare uno scambio di prigionieri negoziato dagli
Stati Uniti in Qatar. I vertici militari americani in Afghanistan hanno
così riaffermato l’intenzione di sostenere militarmente le forze armate
“regolari”, finché i Talebani non garantiranno quella “riduzione dei
livelli di violenza” per la quale si sarebbero impegnati con l’accordo
di Doha di sabato scorso.
L’accusa americana di avere violato i termini dell’intesa è infondata
e fuorviante. I Talebani hanno infatti accettato di “ridurre la
violenza” soltanto nei confronti delle truppe di occupazione USA e degli
altri paesi della coalizione guidata dalla NATO. Una tregua con le
forze del governo-fantoccio di Kabul non è mai stata sottoscritta dalla
delegazione talebana in Qatar. Ai negoziati non hanno d’altra parte
partecipato esponenti del governo Ghani e i Talebani hanno accettato di
entrare in trattativa con Kabul se si fossero verificate alcune
condizioni, come appunto il già ricordato scambio di prigionieri
congelato dal presidente afgano.
Un altro elemento va inoltre considerato. Lo stesso giorno in cui il
segretario di Stato USA, Mike Pompeo, firmava l’intesa con i Talebani, a
Kabul andava in scena una cerimonia parallela per la ratifica di una
“dichiarazione congiunta” tra l’amministrazione Trump e quella del
presidente Ghani, in modo da completare quanto deciso a Doha e gettare
le basi per il coinvolgimento del governo afgano nel complicato processo
di pace.
In questa dichiarazione non vi è però menzione esplicita
dell’assistenza militare americana in operazioni contro i Talebani. Se
questo compito è evidentemente previsto dagli accordi che hanno regolato
finora i rapporti tra USA e Afghanistan, c’è motivo di credere che i
Talebani ritenessero superate le intese precedenti.
Quanto meno, l’atteggiamento americano può essere considerato
ingannevole, visto che nella dichiarazione di sabato scorso viene
indicato chiaramente che l’intervento militare USA è previsto per
combattere individui o gruppi di “terroristi internazionali”, come
al-Qaeda o lo Stato Islamico (ISIS). I Talebani non sono invece citati
e, inoltre, nel testo si afferma come Washington “si asterrà dall’uso
della forza” per dirimere questioni legate agli “affari domestici” del
paese centro-asiatico.
Al di là di ogni considerazione sui metodi impiegati dai Talebani per
combattere le forze di occupazione, è innegabile che gli Stati Uniti
abbiano rimescolato le carte in tavola dopo pochissimi giorni da un
accordo presentato in pompa magna per celebrare l’imminente fine della
lunghissima guerra in Afghanistan.
Questo atteggiamento è tipico della doppiezza con cui gli USA
conducono i propri affari internazionali. Gli esempi di accordi e
impegni non mantenuti, con conseguenti accuse rivoltate contro i propri
interlocutori, sono molteplici, tra cui, più recentemente, quello del
trattato di Vienna sul nucleare iraniano.
Anche in merito alla disputa sullo scambio di prigionieri tra Kabul e
i Talebani, è stato ancora il comportamento americano a mettere in
pericolo il nascente processo di pace. Nel testo di Doha era scritto che
“fino a 5 mila prigionieri talebani e fino a mille prigionieri” nelle
mani di questi ultimi “saranno rilasciati entro il 10 marzo 2020”. In
quello firmato contestualmente tra la Casa Bianca e il governo Ghani,
invece, i termini appaiono cambiati. Le due parti, in questo caso, si
impegnerebbero a “partecipare a un negoziato” per adottare una serie di
misure volte a “creare un clima di fiducia”, inclusa la “possibilità di
rilasciare un numero significativo di prigionieri” nelle mani di
entrambi.
In questa seconda versione, il riferimento allo scambio di detenuti è
piuttosto vago, mentre nell’accordo sottoscritto con i Talebani sembra
un impegno categorico e preliminare per spianare la strada ai colloqui
tra gli “studenti del Corano” e il governo di Kabul. Così stando le
cose, è comprensibile l’irritazione del presidente Ghani e il rifiuto a
rinunciare a un elemento cruciale da utilizzare nelle trattative con i
Talebani, come appunto la sorte di migliaia di prigionieri talebani.
Come con l’Iran o la Corea del Nord, è dunque il governo americano a
costituire la principale minaccia alla risoluzione diplomatica delle
crisi internazionali, anche quando in gioco ci sono accordi, impegni e
trattati approvati proprio da Washington. Nel caso dell’Afghanistan, la
confusione delle posizioni americane dipende principalmente
dall’emergere di opinioni contrastanti all’interno dell’amministrazione
Trump, dei vertici delle forze armate e dell’intelligence in merito
all’approccio da tenere nei confronti dei Talebani.
Questo dilemma rispecchia inquietudini di portata più ampia, da
collegare all’opportunità di un eventuale disimpegno – totale o
parziale, reale o apparente – da un paese la cui occupazione ha
richiesto uno spreco enorme di risorse e che continua a rappresentare
una priorità strategica assoluta nel quadro dell’inasprirsi della
competizione per rotte commerciali e risorse energetiche in un area
cruciale del continente asiatico e dell’intero pianeta.
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