Maria Ferretti, L’eredità difficile. La Russia, la rivoluzione e la memoria (1917-2017), (a cura di A. Berelowitch, M.Carli, L.Rapone, A.Salomoni), Viella libreria editrice, Roma 2019, pp. 354, 32 euro
Non poteva essere più adatto il titolo scelto per questa raccolta di scritti di Maria Ferretti, scomparsa prematuramente nel 2018, dedicati allo studio delle contraddizioni dell’esperienza rivoluzionaria russa e sovietica e alla memoria che di queste si è conservata.
Contraddizioni drammatiche, troppo spesso violente, che hanno reso quell’esperienza un pesante fardello e un’ingombrante eredità per coloro che ancora oggi, a un secolo di distanza, vorrebbero dare l’assalto al cielo. A differenza di ciò che si sarebbe potuto sperare al suo sorgere e per la prima parte del suo cammino.
Una speranza di cambiamento radicale dell’esistente e un modello organizzativo che si sono trasformati in un’autentica sconfitta per il movimento rivoluzionario e per quello operaio del ‘900. E non solo a partire dal 1989, come tanti rappresentanti dei lupanari dei media di regime vorrebbero ancora farci credere per poter dare lustro e gloria al liberismo, alla globalizzazione e al capitalismo, cantandone salmi e lodi.
Una sconfitta tutta interna al movimento rivoluzionario che, pur testimoniata da ricerche che hanno saputo limitare e negare i meriti dell’iniziativa liberale e democratica, non è ancora stata del tutto rielaborata e dalla quale molti non hanno saputo trarre le dovute, necessarie e utili lezioni.
È paradossale, ma fino ad ora il movimento destinato a porre fine, un giorno, all’attuale e catastrofico modo di produzione, ha dovuto saper trarre più lezioni dalle controrivoluzioni che dalle rivoluzioni riuscite. Controrivoluzioni successive alle esplosioni rivoluzionarie, di cui sono state di fatto i carnefici. Come nel caso dell’autentico massacro portato a termine, in casa e fuori, dallo stalinismo e dai suoi servi nei confronti del proletariato internazionale e delle sue avanguardie più sincere.
È proprio per questo motivo che l’opera di Maria Ferretti (nata nel 1958), sia nel suo insieme che nello specifico della raccolta di saggi qui analizzata, può rivelarsi estremamente stimolante e utile.
L’autrice, infatti, ha dedicato praticamente tutto il suo lavoro di ricerca, come affermano i curatori nell’introduzione al testo:
a voler capire – con tutto quello che tale comprensione implicava per una donna che condivideva l’ideale socialista – come un progetto di libertà, nutrito dall’Illuminismo, si fosse trasformato in una delle dittature più terribili e sanguinarie del XX secolo. La sua preoccupazione centrale diventò quella di spiegare la genesi dello stalinismo, né frutto delle contingenze, né completamente iscritto sin dalle origini in un progetto totalitario.1Quindi non un lavoro svolto sulla base della distanza ideologica, ma sempre, con cura e ponderate riflessioni, dall’interno di una causa ideale che ha dovuto comunque prendere atto della sconfitta di un progetto di liberazione proprio a partire dal percorso prescelto. E, soprattutto, di come il regime sovietico abbia privato il popolo russo della sua storia, attraverso una colossale e sistematica falsificazione. Corroborata per decenni dall’adesione alla stessa vulgata dei partiti “fratelli” stranieri.
Un lavoro che aveva portato la Ferretti a trasferirsi a Mosca e a partecipare, in qualità di osservatrice e storica delle vicende sovietiche, al processo di recupero della memoria avviata in Russia dopo l’apertura degli archivi in cui, per decenni, le storie e le vicende tragiche di milioni di uomini e donne (spesso aderenti al Partito e alla Rivoluzione) erano state nascoste. Cancellandone l’esistenza e trasformandoli in ombre di un passato rimosso e, troppo spesso, negato. Lavoro e attività di ricerca, spesso svolto attraverso i rottami di un naufragio che tante famiglie avevano, comunque e ostinatamente, conservato: cartoline dal gulag, fotografie sbiadite, certificati di nascita, oggetti e lettere, che avevano portato alla realizzazione di La Memoria mutilata. La Russia ricorda, edito dalle edizioni Corbaccio nel 1993. Grazie anche alla consultazione di una vastissima bibliografia e alla raccolta di un gran numero di drammatiche testimonianze personali.
Il testo pubblicato da Viella contiene otto saggi apparsi precedentemente come articoli per varie riviste storiche, italiane e straniere, oppure come relazioni per convegni inerenti agli stessi argomenti.
Saggi che non si fermano al periodo compreso tra il 1917 e la denuncia dei crimini di Stalin avvenuta al XX congresso del Partito sovietico, ma procedono oltre, proprio a dimostrazione di come l’opera di rimozione non si sia fermata ai tempi di Chruščev o con la successiva destalinizzazione.
Dalla ricostruzione della storia di un operaio di Jaroslavl’, Vasilij Ivanovič Ljulin, arrestato nella notte dell’11 giugno 1929 alle lettere di Lunačarskij, in cui quest’ultimo si avvale di Don Chisciotte per esprimere le sue perplessità sul percorso intrapreso alla fine della guerra civile, passando per le testimonianze dei corrispondenti operai della «Pravda» nel 1922, tutto concorre a ricostruire un quadro di una sconfitta politica con cui ci troviamo ancora a fare i conti, non soltanto dal punto di vista storiografico.
Sconfitta legata soprattutto a quella modernizzazione autoritaria cui lo stalinismo avrebbe dato vita in nome dello sviluppo industriale, della Patria e della nazione socialista, e a cui è dedicato un altro dei saggi, e che avrebbe dato vita ad un’elevata conflittualità sociale e alla susseguente e sanguinosa repressione. Insieme alle crisi alimentari e produttive avvenute nelle zone agricole in cui si era dato vita ad una collettivizzazione forzata che scimmiottava, sotto la guida dello Stato e del Partito, le trasformazioni avvenute in agricoltura, in tempi ben più lunghi, che avevano portato alcuni paesi dell’Europa Occidentale alla rivoluzione industriale del XVIII secolo.
Un’idea di sviluppo economico, industriale e sociale che ben poco aveva in comune con il tema della liberazione della comunità umana dal lavoro salariato, ma che anzi ne favoriva la diffusione e l’esaltazione2. Idea che in nome della difesa della patria socialista avrebbe precipitato poi il proletariato russo e mondiale in un conflitto imperialista in cui tutta l’azione dell’antimilitarismo rivoluzionario precedente, che è da considerarsi tra le principali cause che avevano portato alla stessa Rivoluzione del 1917, era stata cancellata e rimossa in nome della democrazia borghese e delle alleanze interimperialiste3.
Una sconfitta con cui dobbiamo ancora fare pienamente i conti, pur continuando a portarne il fardello. Opera che occorre svolgere non per continuare ad esaltare oppure rimpiangere nostalgicamente il passato, ma affinché ci sia di stimolo per non ripeterne gli errori. Esattamente come la stessa Maria Ferretti, di cui attendiamo ancora la pubblicazione di due lavori rimasti inediti (una storia del Gulag e uno sui “disillusi” della rivoluzione), forse avrebbe voluto.
Note:
1) M. Ferrretti, L’eredità difficile, (a cura di A. Berelowitch, M.Carli, L.Rapone, A.Salomoni), Viella 2019, Introduzione p. 8
2) Si veda in proposito anche Francesco Benvenuti, Fuoco sui sabotatori! Stachanovismo e organizzazione industriale in URSS 1934-1938, Valerio Levi Editore, Roma 1988
Sull’antimilitarismo come fattore rivoluzionario nell’Italia del primo Novecento si veda L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno Editrice, Roma 2019 (qui)
Fonte
Quando leggo pareri, analisi, recensioni di testi inerenti l'URSS noto sempre che a sinistra si cade in un approccio da "peccato originale" che si materializza in giudizi di totale supporto oppure di totale condanna all'esperienza sovietica e sistematicamente si finisce per non uscirne.
Questo stato di cose, tra gli altri, è dimostrato plasticamente dal fatto che a 30 anni dalla caduta del muro, a sinistra non si è ancora stabilito un punto di arrivo circa l'organizzazione materiale cui dovrebbe aspirare il movimento rivoluzionario e men che meno il suo rapporto con il convitato di pietra di ogni ipotesi di trasformazione: il potere.
Rimanendo sull'esperienza sovietica ho trovato illuminante il 16esimo capitolo de Il secolo breve, titolato Fine del socialismo, in cui Hobsbawm, chiude citando le parole di Oskar Lange:
Se fossi nato in Russia negli anni '20 sarei stato un gradualista buchariniano. Se avessi potuto dare un parere sull'industrializzazione sovietica, avrei raccomandato obiettivi più flessibili e limitati, come infatti fecero i pianificatori russi più capaci. E tuttavia, quando ci ripenso, torno sempre a chiedermi: c'era un'alternativa alla indiscriminata, brutale e fondamentalmente disordinata corsa in avanti del primo piano quinquennale? Mi piacerebbe dire di sì, ma non posso. Non posso trovare una risposta.
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