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10/03/2020

Coronavirus e strategie di controllo: la didattica a distanza

La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza.
George Orwell, 1984

Fra le strategie di controllo messe in atto per contrastare l’emergenza del Coronavirus ce ne sono alcune che, a prima vista, potrebbero sembrare meno pervasive ma che, invece, si configurano come sottili e impalpabili tecniche di potere. Fra di esse va sicuramente annoverato lo smart working e, in particolare, una sua declinazione particolare, la cosiddetta “didattica a distanza”. Quest’ultima fa parte di tutte quelle pratiche che tendono a smaterializzare il lavoro, a renderlo fantasma, impalpabile e, contemporaneamente, a rendere fantasmi e impalpabili i corpi. Se, infatti, la didattica a distanza si potrebbe presentare utile in una situazione di emergenza come questa per permettere la continuazione, quando è possibile, dell’attività didattica da parte di scuole e università, essa, pericolosamente, potrebbe espandersi anche in situazioni di normalità e diventare una pratica comune.

Da più parti si avverte la volontà di sfruttare la situazione di emergenza per rendere normale questa pratica spersonalizzante e virtuale. Il mercato e tutte le dinamiche di potere ad esso correlate sono pronti a lanciarsi su questo succulento affare: con la smaterializzazione dei posti di lavoro dei docenti (e con un drastico taglio di essi che ne conseguirebbe) potrebbero sorgere innumerevoli vantaggi per il mercato e per le multinazionali che smerciano questi prodotti (fra gli altri, non ci sarebbero problemi di aule, di sicurezza, di reperimento degli edifici scolastici).

In un articolo uscito recentemente su “La Repubblica” si può leggere una frase agghiacciante come questa: “ci sono condizioni che abilitano e sdoganano il lavoro agile, e questa è una di quelle. L’auspicio è che però non si continui ad associare lo smart working a un evento eccezionale: oltre al coronavirus, bisogna anche debellare un virus che è la nostra incapacità di lavorare in maniera efficiente, superando il pensiero che solo la presenza in ufficio sia garanzia di risultato”.

Per quanto riguarda la didattica a distanza, però, tutto va a scapito della vera istruzione, delle vere pratiche di insegnamento che, per forza di cose, devono essere in presenza. In una pratica di apprendimento è infatti fondamentale l’interazione diretta fra docente e discente. L’insegnamento è una pratica che molto si avvicina alle dinamiche teatrali, in cui gli attori sono presenti in carne ed ossa di fronte al pubblico: ci sono i corpi degli attori e ci sono i copri del pubblico che entrano in interazione. La didattica a distanza e le video lezioni sostituirebbero il teatro con il cinema o, peggio, ancora, con una serie tv: solo uno schermo, corpi lontani e inesistenti, impossibilità di vera comunicazione.

La didattica a distanza come pratica diffusa, normalizzata e quotidiana, farebbe precipitare ancora di più la società nell’incomunicabilità digitale. Se i ragazzi sono già subissati di strumenti digitali (smartphone, social, videogiochi, tutto all’insegna dei contatti e dell’amicizia virtuale), la didattica a distanza rappresenterebbe un ulteriore sprofondamento nell’isolamento e nella solitudine.

La trasparenza, l’immediatezza e la velocità che dominano la digitalizzazione dell’esistenza, secondo il filosofo Byung-Chul Han, cancellano “l’odore delle cose” e “l’odore del tempo”: “La trasparenza non odora. La comunicazione trasparente, che non ammette più nulla d’indefinito, è oscena […] Non è bello lo scintillio momentaneo dello spettacolo, dello stimolo immediato, bensì il rilucere silenzioso, la fosforescenza del tempo. La temporalità del bello non è il rapido susseguirsi di avvenimenti o di stimoli. La bellezza è un’educanda, una ritardataria. Solo a posteriori le cose svelano la loro odorosa essenza del bello. Essa consiste nelle stratificazioni temporali e nelle sovrapposizioni, che emanano fosforescenza. La trasparenza non emana fosforescenza”.

La normalizzazione della pratica della didattica a distanza correrebbe perciò verso una disumanizzazione della società: la macchina e le sue appendici si sostituirebbero all’uomo in una società che potrebbe essere più o meno la versione in chiave digitale di quella affrescata in Metropolis (1927) di Fritz Lang che, tra l’altro, si ambienta nel non lontano 2026. L’emergenza Coronavirus, opportunamente manovrata, trasformerebbe scuole e università in cavie per sperimentare non vaccini e cure mediche, ma nuove pratiche spersonalizzanti di lavoro. Tra l’altro, la longa manus della medicina estende la sua pratica disciplinare anche in questo campo. Michel Foucault aveva già osservato come lo “sguardo medico” che si distende sul corpo del paziente metta in atto inevitabilmente pratiche di potere e di dominio. Il corpo diviene oggetto di manipolazione e il controllo medico si allarga a diversi aspetti della sfera sociale: “Il luogo in cui si forma il sapere non è il giardino patologico in cui Dio aveva distribuito le specie, bensì una coscienza medica generalizzata, diffusa nello spazio e nel tempo, aperta e mobile, legata ad ogni esistenza individuale, ma anche alla vita collettiva della nazione, sempre vigile sul dominio infinito ove il male, con aspetti diversi, tradisce la sua grande forma massiccia”. Non è un caso che la virologa Ilaria Capua si sia occupata anche di scuola digitale e sia una delle massime sostenitrici di questa pratica, avendo ella stessa ideato un progetto chiamato La scuola continua (a tale proposito si può leggere questo articolo).

Insomma, quando ci risveglieremo da questo incubo del Coronavirus, rischieremo di svegliarci più controllati e disumanizzati, in una società che poco avrebbe da invidiare a quella descritta da George Orwell in 1984, una società fatta di essere umani spersonalizzati, costretti a obbedire a un visore obbligatoriamente posseduto da tutti, preda della menzogna e di un pensiero che può affermare tutto e il contrario di tutto, resi schiavi dalla figura dittatoriale del Grande Fratello. Che, possiamo starne certi, non sarebbe solo il nome di una trasmissione deficiente ma una vera e propria pratica digitale di controllo diffusa e disumanizzante.

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