Stamattina è stato raggiunto l’accordo sul “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”, sottoscritto dai ministri ministro dell’economia, del lavoro, dello sviluppo economico e della salute per parte del governo, i vertici di Confindustria, Confapi, Confartigianato, Cgil, Cisl e Uil per parte datoriale e sindacale.
Meglio scriverlo subito, quello raggiunto è l’ennesimo accordo che spacca in due il mondo del lavoro, che non tutela una grossissima fetta di coloro che ancora oggi, 14 marzo, a tre giorni dall’allargamento della “zona rossa” a tutto il territorio nazionale, sono costretti, pur non essendo impiegati in una mansione essenziale per la sopravvivenza del paese in questo momento di crisi, ad affollarsi sull’autobus la mattina presto, a lavorare alla catena di montaggio in versione XXI secolo per otto ore e a sostare in pausa “fianco a fianco” con i colleghi nell’ora del pranzo.
Nell’accordo si legge che «è obiettivo prioritario coniugare la prosecuzione delle attività produttive con la garanzia di condizioni di salubrità e sicurezza degli ambienti di lavoro e delle modalità lavorative». Eccolo il mondo al contrario, dove la produzione è la priorità a cui vanno adeguati gli standard di sicurezza.
È la linea della Confindustria a prevalere ancora, anche se è evidente che gli scioperi spontanei e quelli indetti dall’Unione Sindacale di Base di ieri hanno prodotto il loro effetto, impedendo che venisse avallato il “codice di autoregolamentazione” così come chiesto per ogni impresa nei giorni scorsi da Boccia.
«Le parti convengono sin da ora il possibile ricorso agli ammortizzatori sociali, con la conseguente riduzione o sospensione dell’attività lavorativa, al fine di permettere alle imprese di tutti i settori di applicare tali misure e la conseguente messa in sicurezza del luogo di lavoro (…). Nell’ambito di tale obiettivo, si può prevedere anche la riduzione o la sospensione temporanea delle attività». Ma la sola messa in sicurezza dei luoghi di lavoro sarebbe la disinfestazione giornaliera dei reparti, e non settimanale come invece stanno facendo le aziende (così come gli uffici pubblici prima che venissero mandati a lavorare da casa).
La possibilità di ricorrere agli ammortizzatori sociali è di certo una buona notizia, ma è comunque un’azione dovuta da parte del governo verso i propri cittadini. Qui, non c’è grazie da pronunciare, non c’è cappello da togliere, è solo la messa in opera dei diritti conquistati in passato.
Al contrario, la possibilità di continuare la produzione resta come una spada di Damocle appesa sulla testa dei lavoratori e delle lavoratrici, con la scelta in mano per lo più alle associazioni padronali, che nelle normali comunicazioni con i propri dipendenti, come rivelato ieri da un operaio al telefono durante la diretta di Giorgio Cremaschi, si fanno vedere solo in video conferenza. Come dire, “al lavoro è meglio che ci andiate, ma noi ci guardiamo bene dal respirare la vostra stessa aria”.
Ma il meglio deve ancora venire. Il governo infatti raccomanda che «sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile; siano incentivate le ferie e i congedi retribuiti per i dipendenti; siano sospese le attività dei reparti aziendali non indispensabili alla produzione; assumano protocolli di sicurezza anti-contagio e, laddove non fosse possibile rispettare la distanza interpersonale di un metro come principale misura di contenimento, con adozione di strumenti di protezione individuale; siano incentivate le operazioni di sanificazione nei luoghi di lavoro».
Tradotto: padroni, fate pure quel che volete. Il lavoro agile è di per sé inutilizzabile per ampi settori dove sono tutt’oggi impiegati milioni di operai. Ove non è possibile allora, ferie forzate da trascorrere, stavolta sì, rinchiusi in casa, e ad agosto preparatevi a recuperare quanto perso in questo inizio di anno. Certo, si potrebbero chiudere i reparti non essenziali, ma quali sono? La Ferrari che non manda a casa i dipendenti che non possono lavorare da remoto, è necessaria oggi al paese? E poi la ciliegina finale, se non potete stare a distanza di sicurezza, mascherina e guanti e via andare, che il Pil reclama i suoi numeri. La salute può aspettare. Peccato che le sole mascherine in grado davvero di proteggere dal contagio siano le ormai introvabili FFP3, da cambiare giornalmente, mentre anche le FFP2 andrebbero sostituite ogni quattro ore. Si consideri che, a oggi, il cambio di queste avviene solo una volta la settimana negli ospedali...
Le successive disposizioni su aspetti come l’informazione, l’accesso nelle fabbriche, la gestione degli spazi comuni o gli orari di ingresso e uscita, non cambiano di una virgola la logica che muove questo nuova intesa tra politica, imprenditori e sindacati concertativi, una logica che percorre tutta la storia (almeno) della nostra Seconda repubblica: chi lavora è una merce al servizio del profitto padronale, il governo di turno si fa portavoce nelle istituzioni di queste esigenze, i sindacati confederali, docili, assecondano (risultato molto importante per la Cgil, accordo dettagliato per la Cisl, soddisfatta la Uil) e in cambio ricevono l’esclusività della rappresentanza.
Alle istituzioni coinvolte vorremmo infine porre una domanda: se con guanti e mascherine il luogo di lavoro risulta sicuro, perché non lo sono le piazze degli scioperi, i parchi della socialità o i luoghi della formazione? Forse che la Confindustria vi ha di nuovo convinto che, come scritto in uno studio pubblicato ieri, «la diffusione del Covid-19 in Italia ad oggi sta causando soprattutto danni relativi al fatturato delle aziende»?
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