di Jack Orlando e Sandro Moiso
Il Coronavirus, uno spettro che si aggira per il globo. Non più quello
del comunismo, ma nemmeno quello della pandemia; è piuttosto quello
della Catastrofe, e della sua immediata articolazione: l’Emergenza. Non è
infatti pienamente comprensibile il timore che suscita questa epidemia,
se non lo si colloca nella sua cornice generale e nei suoi significati
più profondi. Non è per una pandemia che si trema, è per la paura del
collasso, per quel permanente senso di incapacità a mantenere in eterno
l’attuale modo di produzione e di vita capitalistico.
Il Coronavirus ha avuto un tempismo perfetto, cascando nel bel mezzo
di una congiuntura che vedeva già intrecciarsi l’inizio di una nuova
macroscopica crisi finanziaria ed economica, con una profonda crisi
politica delle istituzioni locali, nazionali e globali e con una
tensione crescente alla guerra, che solo in questi giorni prende una
nuova accelerata, con masse di profughi che premono ai confini d’Europa e
la Turchia che tenta di mangiarsi la Siria e conquistarsi un primato
che non sarebbe più solo regionale.
Una grande situazione di possibilità, in fondo, che però trova pronta
ad accoglierla una parte delle associazioni imprenditoriali1,
ma non trova nessuno a raccoglierla tra le fila del “partito
rivoluzionario”, sempre ammesso che ne esista ancora uno. Questo perché, smarrite le bussole del conflitto, ci sembra che dalle nostre parti ci
si adagi nella denuncia dell’emergenza accodandosi alla sua narrazione
mediatica, senza coglierne le complessità né i margini di azione che ci
offre.
La discussione sviluppata negli ambiti di movimento ci sembra in
questo caso paradigmatica: un’oscillazione tra i poli dello scientismo e
del politicismo, condito una tantum dal complottismo anti-americano
vecchio stile. Insomma, un immancabile guardarsi la lanugine
nell’ombelico mentre attorno tutto brucia.
Ai seguaci della scienza accordiamo, ad esempio, il fatto che non è
possibile non tenere conto della dimensione molto concreta di
un’epidemia reale con effetti reali e, a meno che non si sia
studiato medicina, non si hanno le competenze minime per dire quanto
siano o meno reali certe minacce. Il problema di questo ragionamento
però è che rischia di sfociare nell’abdicazione della propria posizione
in virtù della ragion di Stato e del buonsenso: in ogni caso non
possiamo dimenticare che compito dell’antagonismo è sempre cercare
quegli spazi di conflittualità e inimicizia dati dalle contraddizioni
del reale, forzarli fin dove è possibile, fino a farli auspicabilmente esplodere, invece di aspettare il ritorno ad una normalità che ci è
sempre stata ostile.
C’è qui da porsi, poi, qualche altra domanda sulla questione Scienza.
Oggi in questo ambito si fa una gran confusione: tolti gli scettici e
gli opinionisti, da una parte c’è chi finge che questa sia una branca
asettica, immacolata e intoccabile della conoscenza umana e dall’altra
chi, scientemente, ne condanna ogni aspetto negandone la validità in
assoluto. D’altra parte, pur senza svilire l’attendibilità di medici e
scienziati, come possiamo fidarci totalmente della scienza medica
prodotta nei laboratori dei colossi dell’industria farmaceutica, delle
loro invenzioni interessate, dei loro affari nei sistemi sanitari di
tutto il pianeta2?
Occorre denunciare gli stretti legami tra ricerca, organismi sanitari,
taglio della spesa pubblica e investimenti in ricerche finalizzate
soltanto al profitto. Ma la denuncia non basta, occorre andare oltre,
assumendoci responsabilità che troppo spesso sembrano andare al di là
della capacità reale dei movimenti di pensare, organizzare e agire.
È anche questo un lavoro enorme. Bisogna rifondare la conoscenza e
liberarne le possibilità, scientifiche e non, che in quella attuale sono
state limitate o rimosse per il puro interesse finanziario e politico.
Quello della riappropriazione della conoscenza, non solo scientifica, è
un lavoro che occorre sviluppare durante la lotta, proprio come uno dei
suoi motori.
Anche perché il trionfalismo scientista e tecnologico di cui
l’attuale modo di produzione ha fatto sfoggio negli ultimi decenni oggi
mostra tutta la sua debolezza. Il famoso “progresso” con cui i
portavoce del capitale hanno giustificato qualsiasi impresa, dalla gara
spaziale all’obbligo per qualsiasi tipo di vaccinazione, fino
all’estrattivismo e alla devastazione ambientale, così come tutti i
trionfalismi a proposito di sistemi 4.0, 5.0 o n.0 oggi
mostrano tutta la propria fragilità e la vacuità delle loro certezze. Anche
per questo non denunciarne la sistematica opera di rimozione di tutto
quanto poteva essere d’ostacolo all’iniziativa privata significherebbe
rischiare di vedere vanificate in blocco anche le conquiste reali della
scienza con la S maiuscola. Quella che si è sempre mossa senza
nascondere le proprie incertezze e i propri dubbi sui risultati
raggiunti, facendo in realtà di questi ultimi, sempre momentanei e
incompleti, il vero motore dell’avanzamento della ricerca e della
conoscenza disinteressata.
Cosa ribattere a chi invece ignora o sottovaluta le dimensioni del
fenomeno Coronavirus prendendolo per mera tecnica di governo? L’analisi
della situazione solo da un punto di vista politico, senza tener conto
dei fenomeni reali fa sì che, spesso, si perdano i contorni della realtà
e si finisca per applicare concetti teorici in maniera meccanica e
produrre così i fatti a partire dalle proprie opinioni.
A ragionar così, si prende il nemico per una sorta di monolite in cui
non c’è differenza o contraddizione tra gli attori in campo: media,
Stati, grandi capitali, organismi internazionali, tutti sfumati fino a
diventare un unico Moloch per cui ogni emergenza è pura propaganda, ogni
provvedimento preso è volto direttamente alla soppressione di libertà e
di dissenso organizzato quando la prima si può reprimere facilmente in
ogni momento emergenziale e il secondo, banalmente, non si sa dove sia
finito. A continuare su questo sentiero, ci si troverebbe presto a
difendere le borghesissime virtù del lavorare e consumare.
Paradossalmente, non affrontando il tema reale dell’epidemia e
riducendolo a escamotage politico, si perdono completamente i termini
dell’operazione, ci si scolla dalla realtà e ci si rinchiude nel vicolo
cieco della retorica, perdendo di vista anche il campo delle
possibilità.
Ai complottisti geopolitici abbiamo poco da dire. Uscite di casa,
respirate aria fresca e chiedetevi se esistano capitalismi buoni, prima
di ricondurre una malattia sorta in Cina ad un malefico piano
statunitense3.
Ora, questo è il tenore della discussione sul Virus, ma crediamo
valga su ogni altra Emergenza ed è invece proprio sul senso profondo di
queste perenni emergenze che occorre indagare piuttosto che sulle loro
forme contingenti.
C’è uno stretto rapporto che intercorre tra dichiarazione delle
emergenze nazionali, o di altro tipo, e il controllo politico-militare,
da parte dello Stato e dei suoi apparati repressivi, di territori e
opinione pubblica.
Praticamente ogni emergenza corrisponde, nei fatti, ad una sorta di
stato di guerra cui i cittadini, indipendentemente dalla loro condizione
sociale, politica o di età, dovrebbero rispondere uniti per amor di
Patria e di unità nazionale di fronte a un pericolo esterno.
Non varia questo significato in presenza di guerre, epidemie o di catastrofi più o meno naturali.
Accettare la collaborazione con gli apparati dello Stato significa sempre inchinarsi alla volontà del nostro più feroce nemico4.
È come se di fronte ad una guerra dichiarata dal “nostro” Stato
fossimo obbligati per default ad essere accondiscendenti con le misure
prese per contrastarne i rischi. L’avevano compreso fin dal primo
conflitto mondiale i giovani della Federazione giovanile socialista che
diedero vita alla frazione intransigente del PSI poi divenuta, di fatto,
la frazione comunista di Livorno. Fu il disfattismo rivoluzionario a
guidare i giovani socialisti nella loro lotta alla guerra e al
collaborazionismo, anche quando questa si travestì da “collaborazione
nell’ora del pericolo” e dei soccorsi umanitari, dopo Caporetto, nei
confronti dei profughi veneti investiti dalle armate austro-tedesche5.
Roba vecchia per qualcuno, ma estremamente attuale per chi voglia
opporsi a tutte le strategie messe in atto per far rientrare le
dissidenze nel “dolce” alveo della compatibilità sistemica.
Ma allora, qualcuno penserà, non dovremo più aiutare le popolazioni
colpite da disastri e calamità? Dovremmo rifiutare la solidarietà attiva
ai migranti in fuga? Certo che no, ma questo andrà fatto, e questa è
un’altra assunzione di responsabilità oggi troppo spesso ignorata, non
dimenticando mai di denunciare gli artefici dei disastri (militari o
naturali), le cause intimamente legate al profitto e all’interesse
privato oppure alla concorrenza imperialistica e, soprattutto,
attraverso una propria organizzazione ovunque questo sarà possibile.
Non ci interessa scimmiottare la Croce Rossa, i boy-scouts o la Chiesa;
ci interessa, sempre e comunque, tenere aperto ed allargare il
conflitto sociale.
Allora, l’analisi che deve interessare il militante rivoluzionario non è
quella che cerca il pelo nell’uovo della teoria o si piega alla ragion
di stato per evitare di far danno dove non è competente. L’unica analisi
che ci deve interessare è quella che parte dalla situazione data per
coglierne le fragilità e agire su esse; il nostro unico cruccio deve
essere sempre quello di spezzare le maglie del dominio; siamo gli
irriducibili nemici di questo mondo, ogni sua debolezza deve essere
sfruttata.
Quindi, il campo di battaglia che ci si dà è quello dell’Emergenza in
quanto attore imprevisto che nell’arco di poco tempo ed alle soglie di
una crisi finanziaria, politica e militare macroscopica, è in grado di
gettare nel panico la classe dirigente mettendola in crisi sulla sua
capacità di gestione della catastrofe. Vero che il rischio fa parte del
capitalismo, vero anche che il rischio e il capitalismo non escludano il
fallimento.
L’allarmismo emergenziale serve spesso per giustificare tutto e per “sorprendere” il pubblico6.
Ma il perenne e catastrofico accumularsi di emergenza su emergenza ci
parla anche dell’impossibilità di mantenere in piedi questo modo di
produzione, anzitutto, nel momento in cui il suo primato sulla vita
mette in pericolo anche sé stesso e disvela tutta la sua fragilità: il
colosso cinese che rischia di andare in pezzi per una brutta influenza è
un’immagine abbastanza rivelatrice.
Nella necessità di trovare una soluzione alle emergenze, si finisce sì
per sperimentare tecniche assolute di controllo della vita ma anche per
minare lo stesso modo di produzione capitalistico che si vuole
proteggere. Ed ecco allora gli attori finanziari strepitare, le borse
colare a picco, i capi di Stato rassicurare i mercati. La prima
emergenza è in casa del nemico.
Da qui vediamo come di giorno in giorno la situazione di caos
istituzionale, retto quasi soltanto dall’autoritarismo e dalla
militarizzazione dimostra ben più di quanto si è detto a proposito del
contenimento sociale. Da tempo, non a caso, si parla di guerra civile
come unica risposta degli Stati alle richieste dei movimenti e dei
cittadini, intesa come pacificazione, repressione e militarizzazione dei
territori e delle risposte istituzionali: questo perché sono stati
svuotati di qualsiasi funzione parlamentare, politica, economica
autonoma e affidati soltanto alle decisioni prese in altri consessi7.
Motivo per cui di fronte ad ogni imprevisto e al conflitto rimangono in
piedi soltanto grazie al collante dell’autoritarismo e dei provvedimenti
eccezionali come la militarizzazione dei territori.
La figura dello Stato fa quindi, per ora, da parafulmine al capitale,
e questo “stato d’emergenza” ci parla del suo agire in campo come
attore obbligato a governare la catastrofe, ma la crisi di cui è vittima
ormai da tempo si rende fortemente visibile nel momento in cui il
controllo del territorio e la compressione delle libertà sono gli unici
strumenti di cui dispone mentre non riesce a garantirsi una via d’uscita
dal problema; le necessarie misure di contenimento finiscono per
frammentare il consesso delle grandi potenze e così indebolire anche le
indicazioni di quegli organismi sovranazionali che si trovano in
condizione di difficoltà nel trasmetterle attraverso una catena del
comando fattasi, velocemente, assai ingarbugliata. Inoltre, la
difficoltà gestionale dell’emergenza a cui non si era preparati, il suo
inserirsi in una sequenza accelerata e perenne di emergenze, fa sì che
si aprano delle falle nel dispositivo in cui è possibile far filtrare il
bacillo della sovversione.
Ecco un compito per noi, quello del disfattismo anticapitalistico.
Qui entriamo su di un piano molto materiale e vediamo che il terreno
del conflitto risiede in quell’insubordinazione spontanea che parte
dalle necessità di vita. Sta anche qui, e non solo nell’azione statale,
il disvelamento della guerra civile in atto, la lotta per le risorse e
le possibilità di vita: non è la paura del controllo o di un golpe
biopolitico a scatenare l’inimicizia, è il fatto che ci chiudono in casa
e ci vietano di uscire ma non sono in grado di fornirci, fino ad ora,
assistenza medica né approvvigionamenti; è il fatto che hanno massacrato
il SSN fino a trovarsi incapaci di fare dei banali tamponi agli
infermieri8;
è il fatto che ci chiudono le scuole, le università, i cinema, i musei,
vietano gli spostamenti ma comunque ci costringono a lavorare ed
esporci al rischio senza niente di più in cambio; è il fatto che
nell’emergenza ne approfitti il vampiro del mercato alzando i prezzi dei
beni necessari senza che tra le misure ritenute draconiane ci sia un
calmiere dei prezzi.
Questa risposta non può che generare scontento, conflitto e necessità di
auto-organizzazione, è qui che si deve inserire l’antagonista militante
per coltivare l’ostilità e il malcontento, organizzare la deflagrazione
sociale. Ad esempio, denunciando le condizioni e appoggiando oggi le
richieste di coloro che sono in prima linea; come quelle espresse dai
medici che denunciano apertamente gli scarsi mezzi messi a disposizione
di chi col coronavirus deve fare i conti in ambulatorio e negli
ospedali. Attaccando quella sanità privata che nell’emergenza si è
rivelata fino ad oggi totalmente inutile e latitante.
Oppure rivendicando la salvaguardia del salario e del posto di lavoro
per tutti i lavoratori dipendenti delle aziende toccate dalla crisi
epidemica, denunciando il tentativo di abbassare il primo e di
modificare le condizioni di lavoro, magari attraverso una ulteriore
parcellizzazione e precarizzazione dello stesso per mezzo della
diffusione del telelavoro, anche per la fase successiva all’epidemia.
Contrastando ogni tentativo di ridurre gli spazi di lotta come, di
fatto, impone la richiesta della Commissione di garanzia per una
moratoria degli scioperi fino al 31 marzo (qui).
Oppure, ancora, organizzando il blocco dei flussi e la ridistribuzione
autonoma delle merci e dei beni su cui speculano gli sciacalli, i
centri commerciali lasciati aperti quando si è fatto divieto di
manifestare e, in genere, il mercato dove lo Stato ha preferito tutelare
l’accumulazione di capitale.
Indagando, per esempio, quanto l’azione incrociata di Erdogan e
Unione Europea (insuperabile nella sua ipocrisia) stia portando alla
formazione di una nuova coscienza comune tra gli emigranti di diverse, e
spesso ostili, nazionalità9.
Sedimentata nei lager in cui per troppo tempo sono stati rinchiusi e
saldata dall’azione comune concreta più che dalle vuote promesse di
solidarietà provenienti da chi li sfrutta e imprigiona o li respinge e
dalla reazione alla violenza degli apparati e delle ronde fasciste di
Alba Dorata. Una coscienza, che si muove a prescindere dalla solidarietà
dei movimenti europei ma che ci parla di forte conflittualità spontanea
e autodeterminazione e ci impone, una volta per tutte, a ripensare un
approccio politico rivoluzionario al fenomeno delle migrazioni e del
loro soggetto cardine.
Al di là di tutti gli altri esempi che si potrebbero fare, ciò che
occorre sottolineare è proprio questo: di fronte allo sgretolarsi degli
Stati e dei loro rappresentanti partitici l’unica alternativa
ragionevole, se non unica, è quella dell’auto-organizzazione politica
dei territori e dei movimenti che li abitano, la costruzione delle sue
articolazioni su scala globale. Purtroppo oggi molti, che stanno nei
movimenti e sui territori, si abbandonano ancora a riflessioni
riduttive, quasi mai di carattere generale ma, al massimo, massimaliste.
Sembra che per troppo tempo il movimento antagonista si sia abituato a
non assumersi le piene responsabilità che l’attuale situazione dei
rapporti sociali dovrebbe imporre.
È nelle pieghe della quotidianità del dominio che stanno le
possibilità da cogliere e da organizzare; lo stato d’emergenza, in
questo senso, non fa che esasperare e mettere a nudo un dispositivo che è
in atto quotidianamente in maniera sibillina, mentre la catastrofe, per
quanto discorso governamentale che richiama a ubbidienza e unità,
lascia intravedere tutta la debolezza dei sovrani, è il canto del cigno
che ne precede la morte e apre possibilità di collasso che, a chi tiene
ferma la bussola dell’abbattimento della modernità capitalista, sono un
tesoro da saccheggiare rapidamente.
Tutto il resto sono sciocchezze dettate dal timore di affrontare il
nemico vero su scala globale e nella maniera più adatta. Che non può più
essere quella del parlamentarismo, della democrazia rappresentativa
borghese o del pianto sulle vittime, né tanto meno della difesa debole
degli ultimi ridotti rimasti a quello che un tempo chiamavamo Movimento.
Dobbiamo uscire una volta per tutte da questa psicosi dell’emergenza
continua che ci fa rincorrere, come novelli giornalisti d’accatto, le
notizie delle prime pagine che fanno più rumore. Il nostro pensiero
strategico deve tagliare e attraversare di netto questa coltre di
emergenze e colpire il nemico in profondità, nella sua intima
catastrofe10 .
Il parto della civiltà capitalistica, in prossimità del XVI secolo,
fu anticipato da doglie che agitarono un plurisecolare periodo di
guerre, rivolte, saccheggi di nuovi continenti, cambiamenti climatici11 ed epidemie12 che Albrecht Dürer seppe cogliere nelle xilografie realizzate per illustrare l’Apocalisse di Giovanni nel 1498.
Sapremo fare altrettanto incidendo nelle lotte e nelle coscienze
l’immagine della società futura di cui già da tempo avvertiamo i dolori
delle doglie e i movimenti tellurici che l’annunciano?
Abbiamo di nuovo bisogno di eroismo collettivo, di determinazione
infrangibile e instancabile, di intelligenza strategica, di lucidità e
presa di distanza da tutto ciò che ancora rappresenta la miserabile
eredità del modo di produzione attuale. Se è vero che viviamo nel tempo
degli stati d’eccezione e delle emergenze permanenti, allora la regola
di fondo che ci guida è una sola: uscire dall’emergenza e saper abitare
la catastrofe per coglierne il campo di possibilità.
Note:
1) Si pensi soltanto al presidente di Confindustria, Boccia, che continua in questi giorni a soffiare sul fuoco delle Grandi Opere Inutili e Dannose (ma ritenute necessarie per il rilancio dell’economia), confermando il discorso sviluppato, già a partire dagli anni ’50, da Amadeo Bordiga sulla stretta interconnessione tra dinamica capitalistica, sciacallaggio economico e catastrofi “naturali”- A. Bordiga, Drammi, gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, Iskra editore, Milano 1978
2) Sulla possibile “creazione” del Covid-19 in laboratorio si veda qui
3) Qui invece due recenti articoli tratti da «Repubblica» e dal «Corriere» sulle paure americane
4) Si veda, ad esempio, lo strappo istituzionale voluto da Macron e dal premier, Edouard Philippe per far passare all’Assemblea nazionale, il 1° marzo, la legge sulle pensioni, approfittando del divieto di manifestare indetto per “fronteggiare” il Coronavirus
5) Si veda in proposito: L. Gorgolini, Gioventù rivoluzionaria. Bordiga, Gramsci, Mussolini e i giovani socialisti nell’Italia liberale, Salerno editrice, Roma 2019
6) È di queste ore la “sorpresa” per la vittoria di Biden nel Super-tuesday elettorale americano, come se già non si sapesse che Biden è l’unico candidato ammissibile per l’establishment americano, sia democratico che non
7) Di cui, per altro, anche gli europeisti più convinti cominciano a dubitare:
“Oggi l’Unione Europea rischia di essere travolta da due emergenze globali […] La prima è l’epidemia di coronavirus. La seconda la nuova crisi dei migranti riaperta dalla Turchia, che usa i profughi siriani come arma di ricatto […] Entrambe le crisi sono figlie del fallimento degli stati nazionali nell’affrontare emergenze che sarebbero di loro competenza. Le politiche sanitarie non prevedono una gestione comune, così come la sorveglianza delle frontiere esterne e dei flussi migratori rientra nella sovranità delle capitali, che da tempo non riescono a intendersi su una linea di condotta unica. Ma le emergenze non rispettano i trattati europei. Così, dopo che ogni governo della Ue ha cercato di fermare l’epidemia per conto proprio, tutti si devono tardivamente arrendere al fatto che il contagio è un problema comune. Ma questo non basta a decidere di centralizzare la lotta al virus a livello europeo, proprio a causa dell’incertezza su come agire. Qual’è il punto di equilibrio tra la tutela della salute difesa dell’economia e della vita sociale delle nostre comunità? Poiché nessuno conosce la risposta, ognuno pensa di avere la propria verità in tasca e vuole applicarla a modo suo” (Andrea Bonanni, Due crisi, stesso fallimento, la Repubblica 2 marzo 2020)
8) Si vedano qui le conseguenze del taglio della spesa sanitaria proprio nel Lodigiano e qui più in generale su quello lombardo
9) “Arrampicata sul ramo più alto, nella campagna tra la turca Edirne e la regione greca dell’antica Tracia, la vedetta afghana sa che dipende tutto dal suo segnale. Non si va più in solitaria. La coalizione dei respinti si è data una strategia. Per una volta i contrasti etnici, le scazzottate negli accampamenti tra pachistani e indiani, le gelosie tra afghani e iraniani, la diffidenza dei somali, la malinconia dei siriani, lasciano il posto ad un’alleanza inedita […] si sono dispiegati lungo chilometri e chilometri di frontiera. Impossibile per le guardie greche sigillare il confine” Nello Scavo, Bastonate e spari sui migranti in fuga dalla Turchia alla Grecia, Avvenire 3 marzo 2020
10) L’etimologia della parola catastrofe è da ricondurre al verbo greco καταστρέϕω (katastrepho) = io capovolgo. Da tale verbo, il sostantivo καταστροϕή (katastrophé) = capovolgimento, ribaltamento, stravolgimento...
11) Il termine fu utilizzato dagli scrittori greci per indicare un esito spesso imprevisto, ma sempre disastroso, doloroso e luttuoso del dramma o di una qualche impresa, fatto o accadimento umano o naturale. Così, la parola catastrofe, che di per sé sarebbe stata di valenza neutra, indicando semplicemente un radicale e spesso repentino cambiamento della situazione, fu utilizzata, sin dall’antichità come sinonimo di sciagura, disastro, rovina, distruzione... A noi il compito di reinterpretarlo nel suo genuino significato di cambiamento radicale
12) Si veda, per il clima del XVI secolo e la cosiddetta “piccola glaciazione”, Le Roy Ladurie, Tempo di festa, tempo di carestia. Storia del clima dall’anno mille, Einaudi, Torino 1982
13) Per il peso che cambiamento climatico ed epidemie ebbero invece nel contesto della fine dell’impero romano, si veda il recentissimo Kyle Harper, Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero, Einaudi, Torino 2019
Fonte
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